Correggio Jazz, il polso del jazz italiano?

Si è chiuso Correggio Jazz, ed è l'occasione per qualche riflessione sul jazz in Italia

Correggio Jazz
Foto di Tiziano Ghidorsi
Recensione
jazz
Correggio
Correggio Jazz
22 Maggio 2023 - 01 Giugno 2023

«Non suoniamo insieme da un po’, quindi questa per noi è un’occasione speciale. Ci conosciamo da tanti anni, ci siamo incontrati a New York. Le nostre relazioni musicali sono intrecciate a quelle personali: non sappiamo dove ci porterà la musica stasera, lo scopriremo durante il concerto; sicuramente ci saranno molta improvvisazione e probabilmente qualche canzone». Così il pianista israeliano Shai Maestro in apertura del concerto del suo quartetto a Correggio Jazz, la rassegna inserita nel cartellone di Crossroads che ha portato una lunga lista di eventi nella vivace cittadina in provincia di Reggio Emilia nella seconda metà di maggio.

Chi scrive ha scelto quattro serate: il mio festival comincia proprio con il recital dell’acclamato Maestro, con Philip Dizack alla tromba, Orlando le Fleming al contrabbasso e Ofri Nehemya alla batteria (quest’ultimo un po’ prigioniero dei suoi virtuosismi), che  ottiene un grande successo di pubblico.

Alle orecchie del cronista la musica proposta è formalmente ineccepibile ma talvolta un po’ didascalica, sebbene ci siano larghi momenti destinati alla creazione istantanea. In modo particolare suonano avvincenti i frangenti in cui la massa acustica si increspa e sale di volume; peccato però la band non si spinga mai oltre e rientri , per così dire, sempre all’interno delle forme. Si passa da "The Nearness Of You" di Hoagy Carmichael a "In A Sentimental Mood" di Duke Ellington a numeri autografi tratti da Human, pubblicato da ECM nel 2021, come "Mistery & Illusions". 

Talvolta vengono in mente baccanali che riportano dritti dritti al Jarrett dei primi Settanta mentre certe frasi al pianoforte hanno una pronuncia simile a quella di Egberto Gismonti. Non ci si distacca in generale comunque da un intrattenimento sofisticato e di buonissima qualità.

Due giorni dopo la formula è quella del doppio live: in apertura l’Indaco Trio di Silvia Donati con Francesca Bertazzo Hart alla chitarra e Camilla Missio al contrabbasso  in un doppio tributo a Nina Simone e Billie Holiday. "I Want Some Sugar in my Bowl", "Left Alone" scritta con Mal Waldron,"Why the King of Love Has Dead" scritta dal bassista di Eunice Kathleen Waymon il 7 aprile del 1968, tre giorni dopo l’assassinio di Martin Luter King...

Apprezzabile il tentativo di confrontarsi con un songbook monumentale cercando di personalizzarlo con un brio che in sostanza però non riesce ad elevarsi dal periglioso pantano della didascalia. 

Molto buono invece il concerto di Cristiano Calcagnile Anokhi, trio del batterista lombardo con Giorgio Pacorig al pianoforte e Gabriele Evangelista al contrabbasso, protagonista di un ottimo disco, Inversi, pubblicato da We Insist! Records.

Jazz teso e affilato, un meccanismo calibrato al millesimo che propone temi autografi ispirati e densi, che riportano al mood serrato del Jim Black Trio di Reckon. Eccellente la qualità degli interpreti, matura e personale la scrittura, mai retorica o consolatoria, articolato e mobile il groove che viene portato con naturalezza: Evangelista estrae l’anima dal corpo del contrabbasso, Pacorig è come sempre magistrale agli ottantotto tasti, Calcagnile mena le danze con il suo batterismo narrativo che ha pochi eguali nello stivale.

Nella platea c’è chi reputa evidentemente troppo ostico il recital e si alza e se ne va: sintomatico che accada con quello che, per distacco, è il miglior concerto della kermesse e che, per inciso, non è affatto ostico, essendo lontano da certe asprezze free. Si tratta semplicemente di musica che richiede un ascolto attento, profondo. Troppo? 

Il personale percorso del cronista nella rassegna prosegue con Furious Zapping, nomen omen: protagonista il contrabbassista Furio Di Castri in settetto, a proporre appunto uno zapping tra materiali zappiani e rivisitazioni di Monk. Detto che chi scrive non coglie bene il nesso tra Frank e Thelonious, se non nel fatto che si tratta di due grandi irregolari e che comunque questo davvero poco importa, il progetto, se da un lato mette in luce la brillantezza dei solisti (su tutti Giovanni Falzone alla tromba) dall’altro resta a metà del guado. Ottima la qualità della sezione fiati (oltre a Falzone, Achille Succi a sax alto e clarinetto basso, Mauro Negri al clarinetto e Federico Pierantoni al trombone) che punteggia con solismi i temi che si rincorrono e si fondono l’uno nell’altro.

Nel passaggio da un “canale” all’altro, per un tributo a uno che, nelle parole del leader e ideatore, è uno dei personaggi che più di tutti è passato –appunto – da un canale all’altro nella storia della musica del Novecento, si scorre da "Eat That Question" di Zappa a "Ugly Beauty" di Monk fino a composizioni autografe del contrabbassista come "God Shave The Queen" o "The Monk Page", un collage di Monk ispirato a "The Black Page" dello stregone di Baltimora.

Completano l’organico Fabio Giachino alle tastiere e Mattia Barbieri alla batteria, un po’ troppo irruento nel tocco. Il concerto è divertente ma la vexata quaestio (che ronzava già in testa durante il concerto di cui sopra dell’Indaco Trio) resta un po’ sempre la medesima quando ci si confronta con materiali di giganti.

Posto che riproporli tali e quali sono lascia il tempo che trova e può funzionare nelle temibili jam session e in occasioni affini, è possibile spingersi più avanti di quanto non fecero gli originali? Se è interessante l’idea, nel caso di Furious Zapping, di riprenderli eliminando la chitarra, la risposta è  però negativa:  dipenderà dal fatto che chi scrive non è molto convinto da questo tipo di operazioni in generale? Possibile.

Se fosse ancora vivo, chissà cosa potrebbe inventarsi un Hal Willner approcciando i materiali di FZ. «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri» (Gustav Mahler).

Ultimo concerto del festival, che ha proposto dodici concerti a partire dal 16 maggio, è quello di Gianluca Petrella Cosmic Renaissance, dove il leader (trombone, synth, elettronica) è accompagnato da Mirco Rubegni alla tromba, Riccardo Di Vinci al basso elettrico, Federico Scettri alla batteria, Simone Padovani alle percussioni e, nella seconda parte del concerto, Anna Bassy alla voce.

Un ipnotico ritmo cubano e un mood psichedelico, come il Miles di “In A Silent Way” però con la faccia rivolta al sole, cellule afrobeat, grooves suadenti che riportano – chi se li ricorda? – ai Placebo di Marc Moulin oppure, quando indugiano sul lato oscuro, agli Heliocentrics.

Il live è nettamente diviso in due parti; le atmosfere si fanno più pop con l’ingresso della cantante: ascoltiamo diversi numeri dall’ultimo Universal Language, protototipi di un raffinatissimo soul-jazz molto ben suonato e confezionato con arte (molto brava anche la cantante), capace di entusiasmare il pubblico (lo stesso che si era alzato con Anokhi?).

Alla fine della rassegna la domanda inevasa resta questa: il polso del jazz di oggi, italiano e non solo, batte proprio qui? Appuntamento all’anno prossimo. 

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