Braxton, il Sonic Genome incanta a Berlino

Il JazzFest di Berlino ruota intorno al genio di Anthony Braxton, che ha presentato il suo Sonic Genome al Gropius Bau

Sonic Genome Berlino (Foto di Adam Janisch)
Foto di Adam Janisch
Recensione
jazz
Berlino, Gropius Bau
Sonic Genome / Berlin JazzFest
31 Ottobre 2019 - 03 Novembre 2019

Tutte le strade del jazz prima o poi passano da Berlino. Eventi, rassegne, concerti, festivaloni e festivalini, locali vecchi e nuovi (d'obbligo una visita al neonato Au Topsi Pohl, gestito, tra gli altri, dal contrabbassista Antonio Borghini): la città cuore dell'Europa, che proprio in questi giorni sta sobriamente celebrando i trent'anni dalla caduta del muro, non smette di battere forte al centro del mondo.

Più forte che mai durante le giornate del mitico JazzFest, nato nel 1964 come Berliner Jazztage e il cui programma da un paio d'anni, dopo i vari Joachim-Ernst Berendt, George Gruntz e Albert Mangelsdorff, è curato dalla nuova direttrice Nadin Deventer. Sua l'idea di far ruotare l'edizione 2019, la numero 56, attorno alla presenza diffusa di Anthony Braxton; celebrato non solo in musica con una serie di incontri aperti e di approfondimenti (su concetti chiave come quelli di utopia e di comunità, ad esempio) e con una mostra dedicata ai metodi di notazione grafica utilizzati nelle partiture in mezzo secolo di sperimentazioni. Un focus imperdibile, reso ancora più unico dalla felicissima decisione di mettere in scena per la quarta volta in assoluto (dopo il debutto nel 2003 alla Wesleyan University e le repliche a Vancouver nel 2010 e nel 2015 a Torino, nelle sale del rinnovato Museo Egizio) il più visionario e grandioso degli azzardi braxtoniani: Sonic Genome.

Sonic Genome: una notte al museo

L'edificio scelto? L'ottocentesco Gropius Bau, museo a pianta simmetrica disposto su due piani – con affacci, balconate, scaloni, colonne in marmo nero, stanze laterali e un suggestivo foyer – che si sviluppa attorno a un grande spazio centrale. All'interno del quale, dopo una settimana di addestramento più che di prove, si sono radunati i sessanta musicisti coinvolti nelle sei ore di performance (dalle sette di sera all'una di notte). Dodici i sotto-gruppi in cui è stato suddiviso il piccolo esercito di interpreti-improvvisatori, ciascuno affidato alle cure di un fedelissimo: James Fei e Chris Jonas in primis, corresponsabili con Braxton della direzione, ma tra i convocati c'erano anche Alexander Hawkins, Jessica Pavone, Ingrid Laubrock, Sara Shoenbeck, Katie Young, Adam Matlock, Dan Peck e Chris Dahlgren, oltre agli italo-berlinesi Davide Lorenzon e Antonio Borghini. Il risultato? Difficile da raccontare a chi non ci si è trovato in mezzo.

Incipit all'unisono, con l'ensemble al completo guidato da Braxton. Poi, dopo mezz'ora di meditabonde divagazioni, il rompete le righe, con le dodici cellule-unità libere di muoversi in maniera indipendente l'una dall'altra (libertà negata ai singoli musicisti), di separarsi e di riaggregarsi in formazioni multiple. Seguendo le direttive di un copione preciso al minuto e al centimetro nella sua apparente spontaneità, e basato su un vasto repertorio di composizioni braxtoniane dal quale attingere (con licenza di improvvisare e alcuni passaggi obbligati da rispettare). Sinfonia di un edificio, con la corte centrale, protetta da una copertura liberty in ferro e vetro, a fare da gigantesca cassa di risonanza e a tenere uniti i fili sparsi della performance.

Braxton Sonic Genome Berlino
Foto di Adam Janisch

Scandita ora dopo ora dal sovrapporsi e (soprattutto) dal confondersi di suoni vicini e lontani. Precisi, netti, inequivocabili; oppure appena accennati, fantasmagorici, presenze inafferrabili. Il borbottare di una tuba da una balconata, la voce stridula degli archi che si intromette da chissà dove, un trio di sassofoni in cima a una scalinata (Braxton, Fei e Jonas: strepitoso fuori programma), un fagotto e un contrabbasso che dall'ingresso chiamano a raccolta il pubblico, un pianoforte nascosto in una scultura vegetale (Hawkins), l'inatteso radunarsi dei leggii ai piedi del direttore di turno: un ovunque musicale da esplorare rispondendo a input sonori multi-direzionali e in continuo divenire (ma mai troppo distanti dalle orecchie dello spaesato ascoltatore); un'utopia del tutto che diventa una meravigliosa lezione di libertà (a ciascuno le sue scelte), di inclusione, di partecipazione attiva (di chi suona e di chi ascolta) allo strutturarsi di un sistema relazionale complesso.

Fino al più emozionante dei finali, con i sessanta che in ordine sparso, tenendo un'unica nota, lentamente si volatilizzano, accompagnando il Gropius Bau, edificio-strumento, verso il ritorno al silenzio. Applausi irrefrenabili e meritati, ma dei musicisti e di Braxton nessuna traccia. L'ennesimo coup de théâtre in coda a una serata me-mo-ra-bi-le.

Sonic Genome Berlino (Foto di Adam Janisch)
Foto di Adam Janisch

Ma non l'ultima in compagnia di Braxton, di nuovo protagonista in chiusura di festival, sul palco del Berliner Festspiele, con il settetto Zim Music. Oltre al venerato maestro (generosamente alle prese con sax soprano, sopranino, basso e contralto), due arpe (Brandee Younger e Jacqueline Kerrod), fisarmonica e voce (Adam Matlock), violino (Erica Dicker), tuba (Dan Peck) e sax tenore (Ingrid Laubrock). Una formazione singolare e preziosa dal punto di vista timbrico, impegnata in sessanta minuti di mutanti e cameristiche astrazioni. Indirizzate in tempo reale, attraverso alcuni gesti codificati e precisi rimandi a una serie di notazioni grafiche e di partiture, da una fitta sequenza di azioni-reazioni, con i sette musicisti liberi a turno di prendere l'iniziativa e di proporre nuove sotto-aggregazioni all'interno dell'ensemble. Passaggi inquieti e densi alternati a cristalline rarefazioni, escursioni solitarie, obliqui contrappunti, momenti più lirici e sognanti: un'altra utopia messa in musica da un infaticabile catalizzatore di umanità.

Il resto del festival? Tra il prescindibile (l'Origami Harvest di Ambrose Akinmusire, tenuto in piedi a fatica dalla straordinaria voce del sempre straordinario Koyaki) e il deprecabile (il Melodic Ornette della hr-Bigband diretta da Jim McNeely, con ospiti Michel Portal e Joachim Kühn: una tediosa colata di piombo fuso). Con qualche lodevole impennata. A partire dalla versione extended rispetto a quella ascoltata a Saalfelden dell'orchestra T(r)opic di Rob Mazurek e Julien Desprez, impegnata in un lungo set multimediale (con tanto di luci pulsanti e visual in 3D) che si è aperto nel segno della danza e si è poi snodato tra feroci improvvisazioni collettive e passaggi più strutturati (in scaletta anche un paio di brani del São Paulo Underground e una dolcissima canzone lusitana cantata da Ana Rita Teodoro).

Ottimo e abbondante come al solito Marc Ribot, accompagnato da Jay Rodriguez (sax tenore e soprano e flauto), Nick Dunston (contrabbasso) e Chad Taylor (batteria): blues, funky, l'immancabile Ayler (“Truth Is Marching In”), canzoni di protesta e tanto, tanto cuore. Ancora meglio il piano solo di Eve Risser, che da uno strumento (verticale) preparato ha saputo distillare una quarantina di minuti di fantasiosa e luccicante magia, giocando di sponda con elettronica e minimalismo. Affascinante e da rivedere.

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