Beck, ritorno allo spartito

Il nuovo album del musicista americano uscirà solo come sheet music

Recensione
pop
Una boiata pazzesca. Oppure una genialata: i fan sono divisi sulla recente trovata di Beck di far uscire un “album” non come fonogramma – di qualunque tipo esso sia – ma come sheet music, partiture con parti per piano, chitarra, ukulele... Raccolte peraltro in un pregevole libro (edito da McSweeney’s) ricco di artwork dalla grafica retrò, che ammiccano ai vecchi spartiti popolari dell’era pre-discografica (i famosi “mandolini”). «Un esperimento su cosa può essere un album alla fine del 2012», ha spiegato Beck. C’è da credergli.

Immagine rimossa.

È improbabile che Song Reader (questo il titolo del “disco”) possa effettivamente lanciare una moda, ma la trovata merita di non essere derubricata a semplice “provocazione” contro la crisi della discografia, perché – e non è cosa da poco – ci induce a riflettere come venga fruita la musica nella società di oggi. La musica, che come sappiamo esiste dalla notte dei tempi, si è tramutata in un oggetto che si può possedere in epoche relativamente recenti. Prima del disco e della radio, i pionieri di quella che oggi viene chiamata “popular music” arrivavano nelle case graficamente reificati in un foglietto pentagrammato. Così fu per i primi successi "globali" della musica americana, o della canzone napoletana: un’esplosione di musica a stampa, contemporanea a quella della stampa popolare, che si portò dietro a traino l’industria degli strumenti musicali, e tutta una serie di pratiche domestiche destinate a scomparire qualche decennio più tardi. Il giradischi – o il juke box, nei luoghi pubblici – prendevano il posto del pianoforte al centro dello spazio sonoro. E poi, in ordine sparso, la digitalizzazione della registrazione, gli strumenti digitali, gli studi casalinghi, l'ascolto isolato del walkman e dell'iPod, la vasta accessibilità delle tecnologie (e del know how) necessari per fare musica... Oggi, il “Los Angeles Times”, nel commentare l’operazione di Beck, può chiedersi a mo’ di battuta (battuta?): «Esistono ancora dei musicisti pop che sanno leggere la musica?».

Song Reader d’altro canto è un esempio perfetto di quella Retromania che secondo Simon Reynolds rappresenterebbe l’essenza della musica del nuovo millennio. Uno splendido esempio di Slow music che si oppone all’indistinto flusso musicale in cui proviamo a galleggiare da quando – sempre seguendo Reynolds - «La musica ha perso ogni traccia residua del kairos (il “momento clou” in greco antico, l’attimo dell’evento o dell’epifania) per arrendersi definitivamente al chronos (il tempo quantificato del lavoro e dello svago)». In presenza di un’offerta soverchiante, in cui tutta la musica del mondo si può non solo ascoltare, ma possedere (seppure in forma di sequenze di 0 e 1), quanto possiamo dire di ascoltare effettivamente? Il rito dell’ascolto del disco, acquistato come frutto di scelta fra diverse possibilità (un «o/o» secondo Reynolds), costringeva alla focalizzazione dell’ascolto. Figuriamoci la lettura di una partitura.

Un corollario della teoria della “troppa” musica è quello della fine del mercato musicale così come lo conosciamo, travolto dallo squilibrio fra una domanda destinata a contrarsi e un’offerta spropositata. Alle estreme conseguenze di questo processo – siamo nel campo dell’utopia, o della distopia – il fare musica tornerà ad essere una pratica esercitata per gusto individuale sul palcoscenico globale della rete. Il libro-album di Beck ha il merito di postulare, almeno ironicamente, questo ipotetico futuro. Beck stesso invita a “portare in vita i brani” per ascoltarli, e condividerli socialmente (siamo nell'era dei social network, d'altra parte): un blog autorizzato già ne raccoglie le prime versioni.

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