400 kilometri
diario del 28 luglio
Recensione
jazz
Da Santa Teresa di Gallura a Sant’Antioco sono quasi 400 chilometri e cinque ore di macchina.
Mi rimangio tutto quello che ho scritto nel diario. Hanno ragione i sardi a pensare che la Sardegna sia grande, anzi immensa. Perché oggi sembrava proprio immensa e non si arrivava mai.
Poi in alcuni casi sembrano immensi anche 50 chilometri perché forse una volta i pastori si spostavano a piedi o sull’asino ma questa è altra storia e, per dirla tutta, da Santa Teresa a Sant’Antioco che è dall’altra parte dell’isola è veramente lunga e siamo arrivati stremati.
Fortuna che quando arrivi all’isola di Sant’Antioco passando su quella lingua di mare ti si apre il cuore e tutto si giustifica compresi quei 400 chilometri che peraltro stai vendendo da un altro posto magnifico che è Santa Teresa di Gallura.
Anche l’Area Archeologica dove si terrà il concerto con la Kočani e con Antonello Salis è molto bella e accogliente. Bella, accogliente e grande perché mi sa tanto che anche questa sera ci sarà mezzo mondo e i nostri ragazzi stanno già approntando tutto da ore.
I ragazzi della Kočani Orkestar sono più scuri del solito e fumano come dei turchi. Ajnur, il cantante, si è fidanzato un paio di anni fa una ragazza italiana e ostenta tre o quattro parole nella nostra lingua con sua e nostra grande soddisfazione.
Sukri Kadriev, il trombettista principale, non c’è più ed è stato rimpiazzato da un ragazzo giovane e in carne con un tatuaggio gigante sul braccio sinistro. La tromba di Sukri era sempre più ammaccata mentre quella del giovane ragazzo di cui non so il nome è per ora in buono stato ma chissà per quanto. Anche la campana del basso tuba non è poi in ottimo stato visto che ha viaggiato in aereo come bagaglio a mano.
Ogni volta che mettiamo piede in un aeroporto è un disastro. Già a vederli, con le camicie a righe sbottonate fino all’ombelico, i pantaloni gessati, le cinture anni settanta e le scarpe con la punta rialzata fa un certo effetto.
Convincere poi la signorina del checkin a infrangere qualsiasi legge del trasporto aereo per imbarcare quei ferri vecchi si mostra sempre un’impresa titanica e Sabino, il loro agente italiano, si è ormai specializzato in relazioni pubbliche impossibili.
Ieri tre di loro hanno perso l’aereo e si sono fatti Barcellona-Roma in macchina per poter arrivare in tempo al concerto di “!50”.
Il basso tuba ha viaggiato avvolto in un sacco blu e così anche un paio dei flicorni baritono di Redzai e Nijazi che spuntano con le loro campane ritorte da sacchi di tela quasi a voler guardare curiosamente ciò che avviene in quel luogo.
Il tapan di Saban Jasarov invece una custodia non la aveva mai posseduta e una volta si è perso chissà in quale aeroporto e abbiamo dovuto chiedere una grancassa in prestito alla Banda locale.
La sera lui è entrato sul palco con quello strumento in prestito con sopra la scritta “Banda di non so dove” e con lo stemma del Comune con tanto di foglie di alloro a contornare uno scudo sul quale troneggiavano le torri di una rocca malatestiana.
Per essere uguale a Ninnio, il suonatore di grancassa (e a volte di piatti) della Banda di Berchidda, gli mancava solo la divisa blu con il cappello e la lira appiccicata al braccio. Ora Saban è stato sostituito da un giovane ragazzo che ride sempre, danza e suona benissimo. Saban ha dovuto abdicare perché a furia di suonare il tapan ha perso l’udito e sta a casa.
Turan invece, il secondo trombettista, se ne stava lì calmo e tranquillo con una grande pancia e due occhi vispi ad attendere gli ordini di Dzeladin Demirov, il direttore musicale del gruppo che suona il clarinetto e che, in quanto capo, una custodia ce l’ha come l’ha Durak Demirov, il sassofonista che ha preso il posto del vecchio Ismail Saliev e che con Antonello Salis chiamiamo Ornette.
Ora anche Turan è stato sostituito da un giovane e si è aggiunto un secondo cantante che se lo vedi di notte gli stai alla larga e che porta un pantalone bianco che non è bianco con le righe nere che non sono nere su una scarpa lunga quanto la lingua di terra che collega la Sardegna con l’Isola di Sant’Antioco.
Dal canto suo Antonello in quella situazione è perfettamente a suo agio. Più scuro di loro potrebbe essere scambiato senza alcun dubbio per un abitante di Kočani o di Skopje.
Se non girasse in pantaloni corti, t-shirt e bandana multicolore penseresti che stia arrivando dalla Romania e invece è di Villamar, provincia di Cagliari, Sardegna.
La prima volta che si è presentato da solo sul palco per introdurre il concerto di Imola noi eravamo pronti a entrare appostati dietro di lui. Ha attaccato con una raffica di note talmente rapida e violenta che i macedoni si sono guardati increduli. Non avevano mai visto e mai sentito niente di simile. Hanno iniziato rumorosamente a parlare nella loro lingua imitandolo e ridendo come dei pazzi.
Alle prove, che sono durate un paio di giorni, si era trattenuto risultando ai loro occhi quasi un gentlemen e l’effetto è stato dunque ancora più violento e inaspettato.
In aeroporto spesso lo guardo e lo seguo con gli occhi. Loro coi pantaloni gessati e lui con i pantaloni africani in inverno e con gli short d’estate. Loro con le camicie aperte fino all’ombelico e lui in canottiera e cappellino. Loro con gli ottoni che spuntano dai sacchi colorati e lui con la custodia della fisarmonica in spalle che sembra parte di quella famiglia da sempre e attore perfetto del più classico dei film di Emir Kusturica.
Si sposta nervoso e scattante come fosse a un incontro di boxe nel quale non deve necessariamente vincere ma solo darle. Per quanto sia poi l’uomo più mite del mondo.
Per la prima volta al concerto di Milano dell’anno scorso abbiamo eseguito, con l’aggiunta sorprendente della voce di Beppe Dettori, una versione di No potho reposare che è un conosciuto brano tradizionale sardo. Una sorta di canzone d’amore della quale tutti conoscono le parole.
Qualche mese prima avevo consegnato nelle mani di Dzeladin un cd con un paio di versioni differenti. La prima era interpretata da non so quale cantante folk e la seconda, bellissima, da Andrea Parodi dei Tazenda.
Dzeladin, per tutti Jeko, mi aveva promesso che ci avrebbe lavorato e che ci saremo visti a Milano con un arrangiamento preparato da solo e così è stato.
Lo avevano completamente stravolto. Fortunatamente il tema era ancora riconoscibile ma era come se avessero dimenticato qualche pezzo a casa e questo rende il tutto ancora più interessante. Lo avevano fatto già prima con i brani che io avevo scelto di dare loro la prima volta che ci eravamo visti dopo esserci conosciuti a Berchidda nell’estate del 2001.
Fu un amore a prima vista e ricordo ancora quando li incontrai. Avevano iniziato la parata per le strade del paese da qualche minuto ed io ero arrivato tardi. La cosa che mi colpì non fu solo il volume sonoro degli strumenti ma il fatto che si muovevano random camminando con una velocità incredibile come fossero dei Bersaglieri disorganizzati e senza divisa.
L’ultima sera del festival mi invitarono a salire sul palco con loro e dopo qualche mese Sabino mi chiese se volevo montare un progetto condiviso. Risposi di sì e pensai che Antonello Salis potesse essere il mio e loro partner perfetto.
Da allora ci siamo ritrovati spesso sui palchi europei e quando la prima volta decidemmo di montare il repertorio proposi su loro invito due brani che avevo scritto per il film su Ilaria Alpi e una variazione su un ballo sardo.
Loro fecero bene i compiti e ne diedero delle versioni inattese ed originali. I temi venivano flessi alla loro maniera e laddove non arrivavano con la memoria visto che non leggono la musica tagliavano e aggiungevano altro, stiravano o contraevano talvolta elasticizzando la melodia e la forma e talvolta arricchendo le parti tematiche di melismi e di infiorettature balcaniche.
Il risultato era per me eccezionale e mi permetteva in poco tempo di poter capire non solo il loro mondo ma soprattutto il loro approccio.
Ma la sorpresa più grande venne dalla rielaborazione della mia variazione sul ballo sardo. Anche lì fu una operazione di taglia e cuci, di lasciato, aggiunto e dimenticato ma ebbi la confermato del quando quei due mondi fossero vicini per empatia e per affinità ritmiche e melodiche al punto che, in una successiva edizione di Time in Jazz (quella dedicata ai venti anni del festival) i ballerini del gruppo folk di Quartu danzarono al ritmo del tapan, del pianoforte folle di Salis e degli ottoni.
Stasera nell’Area Archeologica di Sant’Antioco dopo un solo adrenalinico di Anto attacchiamo il ballo sardo-gitano e sei subito in transito tra le frontiere della nuova Europa. Alle prime note di “No Potho reposare” riarrangiata ancora dal clarinettista Dzeladin Demirov la gente si ritrova incredula e quando Ajnur attacca il canto con il suo collega con i pantoloni bianchi a righe nella loro lingua il pubblico si commuove e canta con noi. Ognuno nella propria lingua ma tutti con gli stessi suoni e le stesse note. Note sarde, macedoni, zigane.
“Papigo”, “Ucimemajko”, “Siki Siki Baba”, “Goodbye Macedonia” sono alcuni dei pezzi che suoniamo oltre ai due temi tradizionali sardi e a due momenti in duo con me e Antonello dove suoniamo i miei “Abbamele” e “Fellini” che poi io ho iniziato “Lester” di Antonello che mi piace molto ma lui è andato dove gli pare perché Antonello è un vero anarchico e lo è anche in musica.
Intanto apprendiamo proprio lì dal Comitato che il TAR ha accolto in via cautelare la richiesta di sospensiva fino al 5 ottobre per il Radar anti migrazione di Capo Sperone. Una torre di acciaio alta 15 metri per monitorare l’arrivo dei ragazzi della Kočani Orkestar e forse anche di Antonello Salis che è più nero di loro e che suona il pianoforte e la fisarmonica come un angelo.
Gli angeli non hanno passaporto e i diavoli ballano tra le frontiere del mondo.
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