Il jazz “comunitario” di Jazzfest Berlin 2024

La sessantunesima edizione della rassegna berlinese tra “passato, presente, futuro”

Otomo Yoshihide Special Big Band - Berliner Festspiele (foto Fabian Schellhorn)
Otomo Yoshihide Special Big Band - Berliner Festspiele (foto Fabian Schellhorn)
Recensione
jazz
Berlino, Haus der Berliner Festspiele
Jazzfest Berlin
31 Ottobre 2024 - 03 Novembre 2024

Berlino, giovedì 31 ottobre 2024: i ritardi dei mezzi di trasporto non perdonano, e arrivi in ritardo trafelata alla Haus der Berliner Festspiele, sede principale del Jazzfest Berlin 2024; ma perlomeno arrivi in tempo per il terzo concerto della serata iniziale, quello del trio Decoy (Hawkins, Edwards, Noble), ospite d’onore uno splendido Joe McPhee al sax ma anche alla voce (spoken word, cantato). E tra vene free, blues, soul – sempre convincente Alexander Hawkins, al piano e all’hammond, come pure gli altri membri del trio –, azzerare la stanchezza per poi farti sorprendere dalla BIDA Orchestra, nuova formazione a sei di Sun-Mi Hong, in cui accanto alla batteria di grande maestria e versatilità della leader spiccano la propulsività di John Edwards e il sax veemente e senza tregua di Mette Rasmussen. 

Mette Rasmussen, The Sleep of Reason Produces Monsters - Berliner Festspiele (foto Lea Hopp)
Mette Rasmussen, The Sleep of Reason Produces Monsters - Berliner Festspiele (foto Lea Hopp)

Gran bel modo di iniziare quella che sarà una maratona musicale nell’arco di un lungo weekend, in cui ti sarà ovviamente impossibile seguire tutti i concerti tra mainstage e club cittadini che da anni ospitano parte del festival, e sai che dovrai fare scelte sofferte, ma che varranno il rischio. Come il rischio che da sempre si prende chi si muove nell’improvvisazione, e che si prendono con decisione anche i “giovani leoni” del jazz europeo contemporaneo; e dunque, per la seconda serata berlinese, vada per Camila Nebbia e il suo trio Exaust (di recente pubblicazione l’omonimo disco d’esordio) all’A-Trane, e poi, spostandoti in velocità al Quasimodo, per la turntablist britannica Mariam Rezaei con Rasmussen, König e Mitelli (The Sleep of Reason Produces Monsters). Un crescendo che se con Nebbia diventa ricerca sul suono ora intima ora spietata, con Rezaei e sodali raggiunge densità inaudite, dialogo serratissimo e di grande unità d’intenti tra sax, batteria ed elettronica (strumento principale, qui, anche per Mitelli). Serata entusiasmante, come entusiasmante era stato del resto, al mainstage qualche ora prima, il concerto di Kris Davis e il suo quartetto Diatom Ribbons – spaziando tra composizioni originali, Geri Allen, Wayne Shorter ed echi funk, e quanto mai incalzante –, e con Val Jeanty, turntable ed elettronica, che con Davis a volte indica la direzione, a volte la segue. A ricordarti – ripensando a tarda notte, nella tua stanza d’albergo, all’approccio diametralmente opposto di Mariam Rezaei – quanto possano essere lontane le estetiche dell’incontro tra artisti di diverso background musicale all’interno del jazz, inteso non tanto o non solo come genere quanto come attitudine: ed è un’attitudine a cui il lungimirante Jazzfest non manca certo di dare spazio.

Anne Högberg, Extended Attack - Berliner Festspiele (foto Fabian Schellhorn)
Anne Högberg, Extended Attack - Berliner Festspiele (foto Fabian Schellhorn)

Tra i molteplici fili rossi che attraversavano la manifestazione vi era quest’anno anche un focus sul jazz di marca svedese, e se n’è avuta un’ottima prova soprattutto sabato, con la sassofonista Anne Högberg e la sua formazione “Attack” allargata qui a dodici elementi con doppia sezione ritmica, per un’ improvvisazione che sapientemente accompagna verso la musica scritta e l’apporto dei singoli che sfocia in ampi momenti ‘comunitari’ e di calore. A seguire, il saldissimo e altamente propulsivo “French Trio” di Joachim Kühn, il quale, nonostante i ripetuti annunci in tempi recenti di un’uscita di scena, continua a regalarci musica tutt’altro che nostalgica. Un sapore, quello della nostalgia, che ha lasciato invece la performance della Sun Ra Arkestra, vuoi per il cambio di direzione – il centenario Marshall Allen non era presente a Berlino –, vuoi per la mutata temperie culturale in cui si vorrebbe innestare un rivoluzionario messaggio afro-futuristico maturato in ben altri tempi.

“Passato, presente, futuro” –questo il motto della 61a edizione del Jazzfest Berlin –, in cui l’apertura sul presente si radica nel passato per proiettarsi verso il futuro, gettandone le basi: lo spirito che ha animato il festival lo si è vissuto anche nell’ampio ventaglio di iniziative musicali e artistiche realizzate nell’arco di una settimana per e con i residenti del quartiere popolare Moabit – un tempo operaio ed ora, di forte impronta multiculturale, attraversato da una certa rinascita culturale –, iniziative culminate la domenica in diversi set d’improvvisazione all’aperto e poi nella chiesa del locale centro culturale Refo. Palpabile senso di comunità e di comunicazione tra universi apparentemente lontani – un coro di voci femminili turche, musica araba, un danzatore, dei bambini-attori, l’organo della chiesa nelle mani di Hawkins, i musicisti del festival che dall’alto risuonano potenti con fiati e percussioni fino ad un liberatorio fortissimo, e poi ancora Sofia Jernberg e Alexander Hawkins in duo –, ma in fondo così vicini, almeno nell’aspirazione. L’aspirazione, come scriveva nel 1964 Martin Luther King nel suo discorso inaugurale per la primissima edizione del festival (allora “Berliner Jazztage”), del musicista (jazz) a creare “un ordine e un significato con i suoni che scorrono attraverso il suo strumento”, quando la vita sembra esserne priva. 

Community Lab Moabit - Berliner Festspiele (foto Lea Hopp)
Community Lab Moabit - Berliner Festspiele (foto Lea Hopp)

Un senso che ritrovi forte e chiaro anche nei concerti serali che chiuderanno questi sessant’anni di storia del festival jazz berlinese, attento all’Europa ma da sempre aperto alle esperienze d’oltreoceano e non solo, rispecchiando il peregrinare di una comunità musicale globale, la contaminazione, le traiettorie oblique e inattese. Come quelle di Sylvie Courvoisier – “dovevo stare a New York per pochi mesi, e ora ci vivo da una vita!” – che con il nuovo quartetto Poppy Seeds intesse un set di grande bellezza e di totale complicità con Patricia Brennan squisitamente al vibrafono, per una formazione che al suo solo secondo concerto pubblico già ti conquista. O come le traiettorie seguite da Darius Jones nel lavorare con musicisti della comunità di Vancouver ispirandosi all’estetica di Fluxus sull’importanza del processo più che del prodotto e sull’intersezione tra suono e immagine, per giungere alla suite in 4 movimenti “fLuXkit Vancouver (i̶t̶s suite but sacred)”, presentata a Berlino in prima europea. Incontro tra partitura grafica e improvvisazione, e dunque interazione di gruppo quanto mai aperta al non previsto e alla responsabilità diffusa, su cui si staglia il sax intensissimo, limpido, profondo di Jones a scavalcare i propri confini.

Darius Jones - Berliner Festspiele (foto Fabian Schellhorn)
Darius Jones - Berliner Festspiele (foto Fabian Schellhorn)

La punta di diamante, prima che dall’Oriente – con la Special Big Band di Otomo Yoshihide dove a turno dirigono tutti e si viaggia vertiginosamente tra generi sconfinando persino in una danza popolare e popolarissima in Giappone – arrivi l’ultimo messaggio a Berlino su quello che può essere oggi il jazz come attitudine: comunitario, alla pari, felicemente imprevedibile.

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