Saalfelden 2024, il jazz sta benissimo
Reportage-check up annuale da Saalfelden sullo stato dell'arte del jazz
Come sta il jazz? Bene, grazie. Nonostante siano in tanti a preoccuparsi per la sua salute, il paziente è vigile e risponde agli stimoli del presente.
– Leggi anche: Ritorno a Saalfelden 2023
Lo conferma l’esito del check up annuale di Saalfelden, nel cuore delle Alpi salisburghesi, festival tra i più attenti a livello non solo europeo. Da 44 edizioni un punto d’osservazione privilegiato su quello che succede nel mondo, sugli infiniti modi in cui le vie del possibile, del musicabile, continuano a rimescolarsi e a moltiplicarsi.
Il jazz è vivo e se la passa alla grande, con buona pace dei disfattisti angosciati, dei provincialisti di mestiere, delle vedove disperate, dei profeti della fine dei generi.
Il jazz è vivo e se la passa alla grande, con buona pace dei disfattisti angosciati, dei provincialisti di mestiere, ormai assimilabili al peggio del peggio della retorica da ufficio turistico, delle vedove disperate, dei profeti della fine dei generi. In quattro capitoli, il resoconto dell’ennesima trasferta più che salutare.
Violoncelli, violoncelli e ancora violoncelli
Curioso come uno degli strumenti vessillo delle accademie europee sia diventato nel tempo una presenza fissa nella musica che fu dei pionieri Oscar Pettiford, tra i primi a cimentarsi con il fratello minore del contrabbasso dopo un incidente al braccio, Fred Katz, Abdul Wadud e Diedre Murray.
Merito anche del virtuosismo all’americana di Erik Frielander, che a partire dagli anni Novanta si è piazzato al centro della scena di New York e che a Saalfeden 2024 è tornato alla testa del quartetto The Throw (già visto nel 2018 con la stessa line-up ma con un nome leggermente diverso, Throw a Glass). Uri Caine al pianoforte, Mark Helias al contrabbasso, Ches Smith alla batteria: una lezione di classe ed eleganza; un tantino monocorde nell’insistere sulla prevedibilità di un mainstream levigatissimo, senza spigoli, senza sussulti, persino troppo cristallino nelle dinamiche e nelle intenzioni, ma comunque di grande efficacia grazie soprattutto al drumming d’alta scuola del solito, spettacolare Ches Smith.
Di tutt’altro genere l’idea di violoncello di Tomeka Reid, chiamata alla prova del live dopo l’ottimo 3+3 uscito prima dell’estate su Cuneiform. Ad accompagnarla al di qua dell’Atlantico i fedelissimi di sempre: Mary Halvorson (chitarra), Jason Roebke (contrabbasso) e Tomas Fujiwara (batteria), compagni di viaggio dal 2015 lungo la rotta Chicago-New York. Anche qui pochi scossoni alle certezze già acquisite, a un’identità precisa, rifinita, ma la formula proposta dal quartetto, all’insegna di una visione gentile della rivoluzione brooklyniana, di un’estrema compostezza formale ed espressiva, di una squisita essenzialità, continua a funzionare che è un piacere. Menzione di merito per un paio di escursioni solitarie alla Jim Hall di una sempre più irresistibile Mary Halvorson, capace di lasciare il segno in qualsiasi contesto dall’alto di una sensibilità unica.
Terzo violoncellista sul palco, terza variazione sul tema. Stavolta lungo il confine tra Francia e Germania, con Vincent Courtois inserito nel sestetto Thérapie de couple del sassofonista tedesco Daniel Erdmann. Prezioso, anche qui, il vocabolario sonoro della band, felicemente ispirata nel dare forma e sostanza a un pugno di composizioni fantasiose, colorate, ingegnose, messe su spartito per valorizzare tutte le risorse timbriche. Peccato per qualche iper-virtuosismo di troppo, con il violoncello di Courtois e il violino dell’istrionico Théo Ceccaldi incapaci di resistere alla tentazione di farsi largo a colpi di archetto sotto la luce dei riflettori. Applauso scrosciante garantito, effetto «va bene ma stai calmo» inevitabile.
Decisamente più democratica la filosofia della Brainteaser Orchestra, formazione ad assetto variabile che ruota attorno alla scena di Amsterdam e che per diritto geografico (ma non solo) si piazza in scia alla lezione dell’ICP e del Kollektief di Willem Breuker (anche se le orecchie corrono alla Secret Society di Darcy James Argue). Tredici i musicisti in organico a Saalfelden, con gli archi da un parte (violino, due viole, contrabbasso e il violoncello di Pau Sola) e i fiati dall’altra (tromba, trombone, clarinetto basso e sax contralto); nel mezzo un’ipotesi di jazz basata sulla gioia della condivisione, dell’inclusione, sull’ingegno collettivo, una musica propensa alla narrazione più che al solipsismo, al gioco di squadra più che alle sortite a corto raggio, all’effetto complessivo più che agli effetti speciali. La scoperta del festival, con doverosa segnalazione della presenza di Federico Calcagno (clarinetto basso) e di Alessandro Fongaro (contrabbasso), che tra andate e ritorni hanno scelto l’Olanda come punto di riferimento creativo.
The end is near, the end is hear
Benvenuti alla fine del mondo, all’apocalisse sonora immaginata da Mats Gustafsson. Sei primavere alle spalle, tre dischi e mezzo pubblicati, il quintetto The End è al momento la sintesi più riuscita dell’idea di jazz totale del sassofonista svedese. La conferma anche in quel di Saalfelden, con un live a tutta forza dall’impatto metal e dalle radici folk. Sul palco, con Gustafsson, la formazione tipo: Sofia Jernberg (voce), Kjetil Møster (clarinetto e sax tenore), Anders Hana (basso e langeleik, una specie di zither scandinavo) e Børge Fjordheim (batteria), impegnati a scandagliare gli abissi dell’oscurità noise e della rabbia free di una musica abrasiva, ad alto voltaggio (oltre che ad alto volume), ayleriana nel cuore e nell’anima, politica nei fatti, nel piglio, più che a dichiarazioni d’intenti.
Discorso simile per i Messthetics di Brendan Canty e Joe Lally, che un posto nella storia della musica se lo sono già assicurato come batterista e bassista dei Fugazi e che di recente hanno avuto l’idea di tirare a bordo, assieme alla chitarra di Anthony Pirog, il sax tenore di James Brandon Lewis. Risultato: un disco (più che buono) pubblicato dalla Impulse! che è diventato nel giro di un niente il nuovo trastullo di chi è cresciuto a pane, Minor Threat e Dischord. Non molto distante dalla formula messa a punto in studio quella ascoltata dal vivo, con il sassofono al centro perfetto dell’uragano e la sezione ritmica a rimuginare furiosa sulle rasoiate in scaletta. Punk-jazz che sarebbe piaciuto all’Albert Ayler di New Grass e dintorni, con un paio di simil-ballad a fare da contorno e un vago sentore di blaxploitation nei momenti più cinematografici. Schiaffoni a nastro, di quelli che fanno bene.
Una voce poco fa...
Cantanti, cantanti e ancora cantanti. A partire dalla già citata Sofia Jernberg, chiamata in causa anche dal bassista Petter Eldh e dal sassofonista Jonas Kulhammar per l’ennesima incarnazione, non a caso targata We Jazz, del progetto Post Koma. A completare i ranghi il pianoforte di Kaja Draxler (fantastica come sempre nel distillare piccole meraviglie dalla tastiera) e la batteria dell’onnipresente Lukas König. Gli ingredienti di base: il folklore scandinavo, un’irresistibile attrazione per la forma canzone, qualche randellata free assestata come si deve e una serie di suggestivi richiami al Brasile immaginato da Wayne Shorter e Milton Nascimento, al Sud Africa dei Blue Notes e alla California spiritual degli anni Settanta. Tutto bello, bellissimo: il punto più alto toccato dal festival; un saggio di globalismo danzante, una sferzata di entusiasmo contagioso.
Notevole, assai, anche la puntata austriaca degli Elder Ones di Amirtha Kidambi, con Lester St. Louis al contrabbasso (e non al violoncello), Matt Nelson al sax soprano, Alfredo Colon al sax tenore e Ryan Sawyer alla batteria. Rispetto al recente passato un po’ meno fronzoli e molta più sostanza spiritual, con la voce sì al centro ma sullo stesso piano dei due sassofoni. Metronomo e certezza, bussola e cuore, il basso profondo di St. Louis, elemento insostituibile negli equilibri di una band che tende per natura all’astrazione.
Infine Leïla Martial, impeccabile nel gioco a due con il violoncello (un altro!) di Valentin Ceccaldi: in scaletta brani di Henry Purcell, Manuel de Falla e Gabriel Fauré, oltre a una fantastica versione di “Au bois de Saint Amand“. L’essenziale e poco altro; senza strafare, senza forzare. Deliziosi.
L’arte (del piano) va premiata
Ultima doppia fermata prima del capolinea. Da mortaretti in piazza e scuole chiuse il giorno dopo, il nuovo trio di Kris Davis, con Robert Hurst al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria. Run the Gauntlet il titolo del disco in uscita per l’etichetta di casa Davis, la mai troppo lodata Pyroclastic, riletto in chiave live con la presenza e l’autorevolezza che sanno portare sul palco solo certi grandi. Una sfida vinta per la pianista canadese, che scegliendo due musicisti come Hurst e Blake, il meglio che si possa chiedere a livello di rhythm section “americana”, ha deciso di confrontarsi direttamente con la storia del piano trio, con il peso - e che peso! - della tradizione. Risultato: un’ipotesi di mainstream fedele alle leggi dello swing, del jazz da serata al Village Vanguard, ma senza mai rinunciare a quel che di sbagliato, di storto, di fuori posto, di sorprendente, che tiene lontano il rischio della routine di lusso.
Esame di austriaco superato anche per Sylvie Courvoisier e il sestetto Chimaera, reduce da una delle uscite più citate nelle liste di fine 2023 (cliccare Intakt Records). Niente Wadada Leo Smith però sul palco di Saalfelden, rimpiazzato dal vibrafono dell’astro nascente Patricia Brennan (spettacolare); confermato il resto della combriccola: Nate Wooley alla tromba, Christian Fennesz alla chitarra e all’elettronica, Drew Gress al contrabbasso, Nasheet Waits alla batteria. Livello altissimo, insomma, tra derive desertiche degne delle frontiere dei Calexico e passaggi funambolici da occhi fissi sullo spartito. Notevole, davvero, anche se l’eccesso di intenzioni, la claustrofobia da tutto scritto, i cambi di passo e gli scarti improvvisi, hanno preteso forse un po’ troppo dalle orecchie del pubblico. Da rivedere al di fuori del contesto festivalone. Magari in Italia.
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