«Mi vengono i sudori freddi quando sento la definizione "storia della musica", che evoca compositori defunti da un tot, di impettiti signori in panciotto e parrucca. Mi risuona nelle orecchie il ritornello di una solenne danza a tempo di walzer ballata da qualche sovrano decrepito e dai suoi cortigiani». Questo corposo volume da poco uscito per le edizioni Shake e intitolato programmaticamente Musica. Una storia sovversiva (Milano 2023, pp. 422) si apre così, con un madornale ed eloquente scivolone sul walzer: una danza a lungo bollata come scandalosa e ben poco solenne, quasi un emblema dell'emergente egemonia borghese, e qui immaginata invece come una danza di corte all'epoca dell'Ancien régime. L'autore è Ted Gioia, forse il più famoso fra i critici e storici del jazz oggi in attività.
Un titolo e un inizio che sono anche una dichiarazione di guerra alla storia della musica narrata secondo l'ottica accademica. E guerra in effetti è, nell'impostazione generale che suona come una messa in stato d'accusa di "istituzioni", "sistema", "mainstream" e dei loro "capi" (il tutto definito genericamente, mai indicando un nome o un'istituzione specifica) responsabili fin dalla più remota antichità di una colossale falsa narrazione.
La tesi centrale del volume è questa: al fine di celare certe verità inconfessabili, da millenni il mainstream ha regolarmente occultato le due radici ancestrali e primarie della musica: sesso e violenza. Il risultato è che «Il 99% della disinformazione e della propaganda nella storia della musica arriva dalle istituzioni e ovviamente dagli sciocchi che si bevono le loro panzane» (p. 236). «I primi strumenti grondavano sangue. Le prime canzoni promuovevano la fertilità, la caccia, la guerra e simili». «Quando ascolto Beethoven, Brahms, Mahler [...] e altri compositori canonici, mi viene automatico evocare immagini di bande di maschi impegnati nella caccia, usando i suoni come fonte e simbolo di dominio, espressione della volontà di potenza predatoria» (p. 32).
«La tesi centrale del volume è questa: al fine di celare certe verità inconfessabili, da millenni il mainstream ha regolarmente occultato le due radici ancestrali e primarie della musica: sesso e violenza».
In questa sua caccia all'inconfessabile della musica, Gioia, individua nel VI sec. a. C. una grande «rottura epistemologica» ad opera di Pitagora il quale, allo scopo di «eliminare la magia e la trance dalla sfera delle pratiche musicali accettabili» (p. 405), imprigionò la musica in un insieme di regole algoritmiche, imponendole quella ratio numerica di cui essa è tuttora succube: «persino oggi qualsiasi orchestra sinfonica dimostra la sua fedeltà a Pitagora all'inizio di ogni concerto intonando gli strumenti» (p. 58). E questo nonostante il sovversivo assalto portato dal blues e dalla musica afroamericana a questa schiavitù del numero, con le pratiche del bending e della scala blues che, nate fra gli schiavi, contraddicono l'intero sistema pitagorico.
In quegli stessi anni, a migliaia di km di distanza, Confucio realizzò o ispirò la "moralizzazione" dello Shijing, la più antica raccolta poetica cinese, distorcendone radicalmente l’originario carattere erotico, contenente «esplicite espressioni di desiderio femminile che sarebbero parse scioccanti in qualsiasi contesto.» (p. 61). Un destino simile a quello cui andò incontro il Cantico dei Cantici, secondo Gioia, il quale si chiede: «È solo una coincidenza che una simile "epurazione" di una tradizione musicale sovversiva fosse in pieno corso in altre culture in quel medesimo frangente storico?». Esistono coincidenze e affinità incredibili, rituali che, in continenti diversi o a distanza di secoli, appaiono «spaventosamente simili» e che rimandano a un unico albero genealogico primordiale e a miti atavici tramandati per «tremila generazioni» (p. 50). Ipotesi del genere, nonostante riscuotano, secondo Gioia, l’interesse di un numero crescente di studiosi, sono sovversive per il paradigma razionalista. Al contrario, bisognerebbe riscoprire l'originario potere della musica, quelle radici magiche e sciamaniche che discipline quali etnomusicologia e musicoterapia si ostinano ancora oggi a ignorare, nonostante il moltiplicarsi di ricerche ed evidenze che, secondo Gioia, ne smentiscono l’attuale impostazione scientifica (p. 52).
«L’autentica innovazione musicale possiede un potere arcano; essa viene sempre dal basso, dai reietti, e per questo è ontologicamente sovversiva di un sistema che la manipola e la neutralizza per renderla in qualche modo accettabile».
L’autentica innovazione musicale possiede un potere arcano; essa viene sempre dal basso, dai reietti, e per questo è ontologicamente sovversiva di un sistema che la manipola e la neutralizza per renderla in qualche modo accettabile. A riguardo l’autore elenca una serie di casi paradigmatici, a cominciare da Empedocle di Agrigento, figura fortemente affine a certe tradizioni sciamaniche africane, siberiane o australiane. Anziché un filosofo, come tramandato dagli storici che ne hanno voluto rimuovere gli aspetti più imbarazzanti, lo si potrebbe semmai definire uno stregone o un mago (pp.58-9). Discorso analogo per Orfeo, altra leggendaria figura di sciamano giunta però fino a noi in versione ugualmente ripulita.
Chiariamo: questo volume ha un pregio indubbio ed è la ricca messe di informazioni interessantissime sia per quanto riguarda l’antichità, sia, soprattutto, riguardo agli infiniti casi in cui l’industria musicale o le sue star hanno sottratto o sfruttato, intestandosele, innovazioni musicali di vario genere ad artisti emarginati e in particolare afroamericani. Per contro, tutte le affermazioni e i giudizi dell’autore, in particolare sulla musica dei secoli passati, sono talmente generici ed estremizzati da risultare non di rado inesatti o addirittura risibili.
«… tutte le affermazioni e i giudizi dell’autore, in particolare sulla musica dei secoli passati, sono talmente generici ed estremizzati da risultare non di rado inesatti o addirittura risibili».
Affermazioni del tipo: «Il Vaticano [sic] ha contestato [confronted] la crescente popolarità dell’opera lirica, decidendo che i cantanti castrati potessero essere la risposta giusta.» (p. 206); «il Vaticano [sempre lui!] cercò di impossessarsi dell’opera lirica e rigirare la sua musica scandalosa al servizio del papa.» (p. 97); «[un’opera come] Le quattro stagioni è decisamente più pagana che cristiana, evoca le antiche musiche della fertilità...» (p. 218); «Beethoven era contrario alla monarchia? Tutt’altro» (p. 231); «qualsiasi definizione di un pezzo o di uno stile basandosi esclusivamente sulle note, diventa assurda, un consapevole rifiuto di leggere l’autobiografia privata inscritta nel pentagramma» (p. 227).
Oltre a una superficialità imbarazzante, affermazioni del genere fanno pensare a una lettura capziosa delle fonti, col proposito di sparare affermazioni esplosive, ad effetto, presentandosi come un leaker, quasi un Julian Assange della musica. In effetti, ai lettori di un testo “sovversivo” non interessa affatto che tali questioni, sovversive o meno, in ambito musicologico siano da lunghissimo tempo oggetto di ricerca e dibattito o già acquisite storicamente. Al contrario gli stessi lettori saranno invece verosimilmente deliziati nel vedere le élites accademiche ritratte in blocco come una banda di fakers.
Ted Gioia vede nell'ascesa del blues all’inizio del xx secolo la conferma decisiva della tesi centrale dell’opera, cioè che «l’innovazione musicale ci arriva dai sottoproletari» (p. 296). Che innovazione, rivoluzioni estetiche, istanze progressiste, non solo in musica, nascano in genere ai margini, tra i rifiuti della società è tesi nota, condivisa (e com'è ovvio anche osteggiata) da secoli nella cultura occidentale - come diceva Fabrizio De André: «dai diamanti non nasce niente...». Tuttavia il modo in cui Gioia applica le sue tesi a tutto lo scibile musicale, remoto o recente, evidenzia come in questa sua ambiziosa silloge universalistica l’autore, senza andare troppo per il sottile, non faccia che universalizzare le dinamiche della società industriale e mediatica; in particolare la sorte cui in effetti andò incontro, tra il XIX e il XX secolo, la musica afroamericana, in balìa di una società bianca dapprima schiavista e poi abile sfruttatrice e venditrice di ciò che in precedenza era intollerabilmente scandaloso.
«… Gioia sembra proiettare all'indietro, fino alla preistoria, le mentalità, gli assetti politici e sociali, la quotidianità del nostro tempo. È una narrazione pop che può risultare molto accattivante».
In altre parole Gioia sembra proiettare all'indietro, fino alla preistoria, le mentalità, gli assetti politici e sociali, la quotidianità del nostro tempo. È una narrazione pop che può risultare molto accattivante. I tanti lettori per i quali, da Orfeo a Ćaikovskij, la storia della musica si risolve nell'aneddotica edificante della divulgazione vecchio stampo, la troveranno davvero sovversiva. A proposito di Nerone e dell'incendio di Roma, Gioia scrive che «l'imperatore improvvisava con la chitarra durante il rogo, una specie di Smoke on the Water per il pubblico in toga» (p.113-4); altrove cita la descrizione che la pianista Elisabeth von Bernhard diede di Beethoven - «Era basso e insignificante, con una brutta faccia rubizza tutta butterata [...], era rozzo sia nel comportamento che nei modi» con questo commento: «Potrebbe essere in tutto e per tutto la descrizione di Johnny Rotten o di Lou Reed, invece siamo alle prese con Beethoven». Informazioni del genere non sembrano un gran progresso, né per la divulgazione, né per la storiografia. Questo registro pop, attualizzante, viene accentuato dalla traduzione di Giancarlo Carlotti che, con una scelta sconcertante, rende la parola song quasi invariabilmente con canzone, salvo pochissime eccezioni, alcune delle quali non casuali e pressoché obbligate: Song of Songs diventa Cantico dei cantici; The Songlines diventa Le vie dei canti. Song, infatti, significa anche canto, ed è quindi parecchio fastidioso incontrare locuzioni quali “le canzoni preistoriche”, “le canzoni della Bibbia”, “le canzoni degli arabi”, ecc.
La dialettica di conservazione/rinnovamento, repressione/emancipazione che Gioia sembra considerare come specifica della musica, in realtà ha scandito e tuttora scandisce l’intera storia umana e in particolare il campo culturale. Fin dall’antichità, dalla Lisistrata di Aristofane al Satyricon di Petronio, da Rabelais alla Commedia dell’arte, dalla Pop Art a Pasolini, sappiamo perfettamente che trasgressione e censura hanno marciato di pari passo, ma anche che, pur tra infiniti su e giù, "l'ascensore culturale", chiamiamolo così, ha continuato a scalare le gerarchie. Anche in musica, naturalmente: dai contrafacta medioevali ai giullari alle canzoni villanesche; dall'opera buffa al Lied a Béla Bartók, fino alla popular music dei nostri giorni. A emblema di questo fenomeno generale, basti un solo esempio: le lingue neolatine, cioè il volgare – per l’appunto – da cui Divina commedia e via discorrendo.
Certo, dall’osteria alla canonizzazione ne passa del tempo, e se all'inizio la ciaccona, il valzer o Elvis Presley erano indubbiamente scandalosi e censurati, poi non lo sono stati più. È fuor di dubbio che la diffusione e il successo di una novità in precedenza inaccettabile corrispondono quasi sempre a un’edulcorazione di tratti in origine più marcati e trasgressivi. Ma sostenere che al di sopra di tutto un attore occulto e, al suo servizio, la storiografia musicale abbiano metodicamente celato questi processi è semplicemente non vero per usare un eufemismo. Basterebbe leggersi i primi capitoli della Storia della danza (1933) di Curt Sachs sull’originario carattere orgiastico delle danze popolari, assurte poi nel novero delle danze di corte e delle Suites.
«A monte di tutto, sembra esserci un utilizzo delle fonti molto parziale e anche, come si è detto, tendenzialmente capzioso…»
Di fatto questa Storia sovversiva, ricca più di insinuanti interrogativi retorici riguardo a coincidenze troppo sospette per essere frutto del caso, che di riferimenti testuali specifici, sfocia di norma in una ricorrente e irritante petizione di principio, in cui la logica del post hoc, ergo propter hoc prevale sui riscontri storici o documentali. A monte di tutto, sembra esserci un utilizzo delle fonti molto parziale e anche, come si è detto, tendenzialmente capzioso, dove "mainstream" si identifica sempre con l'orientamento più conservatore e retrivo della storiografia, anziché con la ricerca più aperta e innovativa, non ultima quella New Musicology, meno sovversiva forse a parole, ma più nella sostanza, e di cui l'autore non fa parola. Di questo mainstream descritto come un Moloch, fanno parte non solo la Santa inquisizione, Giovanni Maria Artusi o Adorno, con quella sua sorta di sindrome postraumatica che lo costringeva a mitragliare ogni parvenza di musica piacevole; ma anche Rousseau, Curt Sachs, Leo Treitler, Susan McClary, che quanto a sovversione potrebbero forse insegnare qualcosa a Ted Gioia.
Per concludere, il “sovversivismo” di Ted Gioia si colora di un'imbarazzante tinta populista o addirittura cospirazionista. Si tratta comunque di un libro che sarebbe bene leggere, perché consente in effetti di allargare il campo visuale a terreni assai poco esplorati dalla storia e dalla musicologia. Ma è anche un libro da meditare, per toccare con mano il linguaggio, i temi, la logica (o i sofismi) di quel vasto assalto ai principi del razionalismo, e quindi alle discipline scientifiche e storiche, che imperversa in questi nostri anni. Un assalto che reclama la riabilitazione di una non meglio identificata realtà che, la si chiami primordiale, magica o (pseudo-)scientifica, è comunque vittima di un “sapere mainstream” che l’avrebbe perennemente oscurata. Un sapere che i suoi accusatori considerano immancabilmente asservito a un potere a sua volta occulto. Un sapere che, al di là di tutto, ha tuttavia la sua parte di responsabilità nel dilagare di questa odierna marea irrazionalista.