Larry Ochs, rigore e imprevisto
A Mantova per You Must Believe in Spring il gruppo Fictive Five del sassofonista Larry Ochs (ROVA)
Entra nel vivo il programma di You Must Believe in Spring, curato a Mantova dall’associazione 4’33’’, con il concerto di una delle eminenze grigie di un certo modo di approcciarsi ai materiali jazz: Larry Ochs. Un interprete e un autore storicizzato (il Rova Saxophone Quartet è una esperienza fondamentale, così come Maybe Monday con Fred Frith) che però non smette di esplorare.
Negli spazi della scuola di danza DANZAREA, proprio nel cuore del centro della città e a un passo dal lago, il musicista, nativo di New York ma residente in California, presenta The Fictive Five. Sul suo sito si autodefinisce sassofonista, compositore collaborativo e improvvisatore post-coltraniano, Ochs. Dell’irruenza drammatica e del lirismo pugnace di Coltrane non abbiamo colto segnali, in compenso però siamo rimasti felicemente interdetti nel renderci conto di non trovare inizialmente parole per descrivere quanto abbiamo ascoltato. I "cinque immaginari", così si chiama questo progetto e assieme al leader abbiamo Harris Einsenstadt (forse il meno brillante della compagine) alla batteria, Ken Filiano al contrabbasso (istrionico e teatrale), Pascal Niggenkemper all’altro contrabbasso (suonato più in chiave rumoristica, lo avevamo già visto in solo la scorsa estate al festival di Mulhouse) e Nate Wooley alla tromba (si esibirà in solo assieme a un trio di danzatori l’11 aprile, sempre per questa rassegna, e noi ci saremo perché il musicista merita di essere seguito).
Cosa accade in questo spazio raccolto, dove, a parte una minima amplificazione per i due contrabbassi, gli altri strumentisti suonano completamente acustici? Epifanie malmostose, fragili satori, un clima che indulge all’interlocutorio e inizialmente sembra faticare a trovare una scintilla di ispirazione: le composizioni sono scritte ma largo, larghissimo spazio viene lasciato all’improvvisazione e all’interplay. Larry Ochs suona antiretorico, teso e sottile, il contrabbasso preparato (con campane di metallo poste tra le corde o altre diavolerie) stranisce l’aria già rarefatta, i temi vengono esposti per poi sparire immediatamente, sghembi e lasciati ai margini come memorie transitorie o discorsi dove chi parla cambia idea e argomento nel corso della conversazione.
Non c’è l’irruenza del free più viscerale, non c’è l’astrazione completa e scivolosa del riduzionismo più severo: siamo in una stimolante terra di mezzo; l’idea del doppio contrabbasso (Niggenkemper a scavare suoni stridenti, Filiano con l’archetto e a volte gli effetti a sostenere questo mare perennemente increspato, mosso da un lieve vento di batteria) è una scelta vincente. Composizioni austere che sembrano provenire da un altrove indefinibile per poi sfociare in un groove perfetto per il catalogo BYG Actuel, imprendibili meditazioni filosofiche tra Cage e la Great Black Music. Ochs al sopranino risveglia memorie del Lacy più assorto, i pezzi mettono in scena una deriva, una lotta per squarciare le nubi dell’aleatorio che li circondano; siamo in un paesaggio poco ospitale ma denso di fascino: a farla da padrone sono una scrittura che allude piuttosto che dire e una improvvisazione senza centro di gravità. Un tema quasi gillespiano di Wooley emerge dal magma, è l’ultima festa sul Titanic, qualcuno si ostina a suonare jazz mentre si fanno strada la perdita di ogni riferimento e di ogni coordinata e le onde della confusione impongono il loro regno. Si tratta però di una confusione strana, perturbante perché ambigua, spesso sussurrata: il fragore è più rivolto all’interno che all’esterno. Le maglie delle strutture sono larghe, c’è campo libero per l’invenzione del momento. Ipotesi che non diventano teorie, cerchi nell’acqua, forme che si dissolvono proprio quando crediamo di averne afferrato il disegno e la geometria, polvere di avanguardia storica e ansie di imprecisati futuri. Wooley alla tromba è espressivo e poliglotta, Niggenkemper trasforma il contrabbasso in una percussione mutante suonata coi battenti: siamo nel bel mezzo di un deserto dei Tartari in attesa di un attacco che non arriva mai.
Sono musiche che si perdono nelle nebbie del mito, le stesse dove si ritrovò Efesto, tutto rotto, dopo essere stato scaraventato giù dall’Olimpo perché deforme. Ecco, questi suoni hanno il fascino povero e cocciuto di una creatura bistrattata, i lineamenti e le proporzioni distanti da quello che il senso comune (che spesso è velatamente fascista) considera accettabile. Musiche apparentemente poco accoglienti, capaci di regalare il brivido dell’imprevisto: a un orecchio distratto potrebbero sembrare in alcuni frangenti eventuali, invece nascondono un senso delle proporzioni calibrato e personalissimo, un rigore zen che diremmo politico e un disegno di libertà cocciuto e prezioso.
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