Tra Sardegna e jazz, il jazz che sarà
Il festival di Sant'Anna Arresi si conferma tra gli appuntamenti più originali e interessanti in Italia (e non solo)
Trentratreesima edizione di Ai confini tra Sardegna e Jazz, nel Sulcis Iglesiente, nella periferia della periferia, che miracolosamente all’inizio di settembre è diventata ancora una volta il palcoscenico di alcune delle vicende più interessanti di quanto ruota attorno al jazz oggi.
I concerti (eccezion fatta per un paio di appendici nella spiaggia di Is Solinas, nel comune di Masainas, poco distante) si sono svolti tutti nella piazza del Nuraghe di Sant’Anna Arresi, ed anche quest’anno il festival è stato bello, significativo, potente, dal punto di vista artistico ma anche politico, in un clima familiare e di utopia realizzata che induce a serbare un briciolo di speranza per il futuro di chi ha la libertà e la sana incoscienza di sperimentare in questi tempi distanti e cupi.
Dall’1 al 7 settembre (la rassegna si è protratta sino al 9) ho partecipato a quello che senza dubbio può essere definito il miglior festival jazz italiano, che lotta tenacemente per sopravvivere, con gente disposta a fare parecchi chilometri per esserci (tra questi era dei nostri ad esempio il curatore di Wels, la storica rassegna austriaca che quest’anno si svolgerà dal 9 all’11 novembre). E che sconta però ancora, per una serie di motivi (forse il programma troppo eclettico, cosa che per chi scrive è un pregio, forse la lunga durata, la posizione marginale, la decrescente curiosità del pubblico o la progressiva riduzione a riserva indiana del medesimo, quando si parla di musiche di un certo tipo) un certo tepore in termini di affluenza da parte dei locali e non solo.
A inaugurare questa maratona avventurosa, quasi a spiegare in qualche modo lo spirito che anima questa manifestazione, un’accoppiata che vede sullo stesso palco prima la tradizione dell’avanguardia americana e del blues rivisitata dagli ottimi Roots Magic da Roma e poi le esplorazioni della White Desert Orchestra diretta dalla pianista francese Eve Risser. I primi convincono in pieno con una ottima, devota e puntuale – ma non didascalica –riproposizione di perle di Roscoe Mitchell, Andrew Cyrille, Marion Brown, Julius Hempill e Charlie Patton (abbiamo riconosciuto anche una citazione del tema di "Unity" del grande Phil Cohran, da poco scomparso). Le radici sono magiche perché ci portano per mano in viaggio in un passato ("Old", del leader degli Art Ensemble of Chicago, a testimoniare il legame tra le musiche di avanguardia e le radici nelle dodici battute del Delta del Mississipi) sul quale non si è accumulata nemmeno un’unghia di polvere. Con l’ensemble di dieci giovani musicisti diretto dalla Risser siamo in mare aperto: un’apertura ambientale e sospesa che fa presagire non benvenutissimi languori ECM, poi le acque si increspano, il chitarrista Julien Desprez (anche con Fire! Orchestra) dà ottima prova di sé maltrattando con feroce inventiva la sua chitarra acustica, la sezione fiati è protagonista (ben cinque elementi), la bassista ricorda per movenze e irruenza un po’ Luc Ex, ci sono molti elementi interessanti, ma non tutto pare ancora ben messo a fuoco.
Di nuovo il giorno dopo, due ossimori a confronto: l’energia atomica di The Young Mothers, il progetto americano di Ingebrigt Haken Flaten, già contrabbassista di The Thing, ottimo nel dispensare veemenza e beat (c’è anche un rapper) con una formazione a doppia batteria (rotolante e sempre nel pieno del flusso Frank Rosaly, già visto suonare , in altro contesto, con Riley Walker) che alterna afrori funk ed eruzioni death metal (ottimi, perché imprevedibili per chi non li avesse mai visti, gli interventi alla voce del secondo batterista, look da biker e figura alla Lemmy dei Motorhead che lo rende istantaneamente un idolo), toccando in certi momenti la magnificenza cosmica di certi groove eterni della Exploding Star Orchestra. A seguire la classicità e la perfezione indiscutibile di David Murray, in trio invece che in quartetto come da programma. Assente Orren Evans, membro ora di The Bad Plus e trovato in gran spolvero al Météo poco tempo fa, nell’assetto a tre la voce inconfondibile di Murray, sostenuta da una sezione ritmica che è un meccanismo perfetto, ha modo di dispiegarsi in tutto il suo nitore, tra eruzioni free , omaggi al sodale Butch Morris, che era un amico del festival, e un fraseggio limpido e torrenziale, con un suono sempre pieno, limpido, caldo, elegantissimo e zuppo di soulness.
La terza giornata vede insieme uno dei picchi assoluti e la delusione più clamorosa. I Radian, scoperti in un live di 13 anni fa a Bologna in apertura agli Slint, dall’Austria, sono un trio chitarra basso e batteria (l’ottimo Martin Brandlmayr) che fa massiccio uso di elettronica e sequenze: ombre, detriti, apparizioni fantasmatiche, premonizioni di futuro, miniature di silicio racchiuse in uno scrigno rock, dub dei sottomondi, apnee perfette, funk disidratato e ossuto, ciò che resta del groove dopo che la storia è finita, un blues gelido e profondissimo, come un autopsia sulle musiche di Morricone o una sorta di trip-hop del dopo bomba. Dettagli dosati con scienza esattissima ma mai leziosa, spazi, silenzi, rifrazioni, echi, miraggi, per una musica magnetica eppure lievissima, profili di temi appena accennati da intravedere attraverso una fitta nebbia digitale, un suono che è esso stesso un’illusione, una similitudine, un’esplosione controllatissima. Brividi per un set magistrale di vero e proprio ghost-rock.
I Talibam!, invece da New York, di solito in duo (Kevin Shea alla batteria – quanto lo amammo quando era in Storm & Stress con Ian T. Williams dei Battles – e Matt Mottel al synth), in questa occasione si presentano con Luke Stewart al contrabbasso (già avvistato con il trio elettrico di James Brandon Lewis), una chitarrista e il grande Joe McPhee a sax e cornetta, che però non riesce a risollevare le sorti di un concerto che fila via senza mai un’idea degna di tale nome a balenare nel marasma. Del resto, la tastiera a tracolla in perfetto stile Sandy Marton ("People from Ibiza", se avete almeno 42 anni come il sottoscritto sapete perfettamente di cosa sto parlando) di Mottel non faceva presagire nulla di buono. E infatti.
Le brutture della seconda parte della terza giornata vengono però immediatamente cancellate dalla serata successiva, la più densa e spettacolare, con un doppio concerto di altissimo livello. Affiatato ed in fiamme il duo tra Chad Taylor e James Brandon Lewis, che al tenore suona, come mi dirà poi in sede d’intervista il giorno dopo, "come se fosse l’ultimo concerto della sua vita"; la temperatura resta alta per tutto il live, chiuso da una magistrale rilettura di "Somewhere over the Rainbow". L’aria però si fa incandescente per davvero con Chicago London Underground, quartetto di stelle dove la fa da padrona un Alexander Hawkins cruciale e ispiratissimo, sempre pronto a spostare in avanti i confini, a scovare gli angoli nascosti, acrobatico o scientemente pigro, sbilenco, a metà del guado tra rigore accademico e alluvioni free. Una giungla metaforica e iperreale, metropolitana, come una nuova colonna sonora per il capolavoro che ispirò a suo tempo Zorn, Naked City, con un Mazurek nudo, essenziale, discreto, quando siamo abituati ad ascoltarlo avvolto da una coltre di effetti. Chad Taylor alla mbira fa emergere nuovamente memorie del monumentale On The Beach di Phil Cohran, sentori di Africa lontana, quasi di ethio-jazz (Hawkins suona con Mulatu Astatke), con John Edwards al contrabbasso febbrile e pugnace. Il risultato è una musica in perenne movimento, profonda e lunatica, una sorta di gospel destrutturato e selvatico, un inno cosmico delicatissimo e feroce, primitivo e futuribile: musicisti in stato di grazia ed un concerto che lascia il segno.
A causa della defezione di Tyshawn Sorey, che l’anno scorso aveva lasciato tutti a bocca aperta con il suo solo, il Sant’Anna Arresi Black Quartet vede insieme i sassofoni di Murray e Brandon Lewis con la ritmica dell’ottimo Jaribu Shahid e nuovamente Chad Taylor, sul palco per quattro (!) concerti consecutivi in due giorni. Classe indiscutibile, Brandon Lewis probabilmente un po’ in soggezione, musica suonata in maniera magistrale ma nessuna emozione particolare da annotare, se non per il suono ruvido e lirico di un Maestro, David Murray, che è un privilegio poter ascoltare.
Più avvincenti A Pride of Lions, con due contrabbassi (uno è quello di Joshua Abrams , coinvolto in mille progetti tra cui gli ottimi Joshua Abrams Natural Information Society) due sassofoni (Daunik Lazro e nuovamente Joe McPhee, qui finalmente libero di esprimersi in un contesto adatto) e lo stakanovista Taylor. Una musica informale, sovente allusiva, circospetta, groove che si accendono tardi ma non troppo, improvvisazioni che sanno di camerismo irrequieto e vivono di lampi quando incontrano una figura che rapisca, sul crinale sottile tra differenza e ripetizione. Assolutamente convincenti le Afriche remote e plausibili evocate in questi lunghi pianisequenza, zen blues, sfingi ritmiche, anche se a volte ci si perde in una stasi che non è ipnotica ma è solo didascalicamente statica.
In chiusura, buona ma non del tutto a fuoco l’esibizione di ONG Crash, il quartetto di Gabriele Mitelli, mentre è assolutamente d’obbligo soffermarsi sul quartetto (piano, contrabbasso, batteria e voce) di Alexander Hawkins, autore di un bop iper astratto, denso di infiniti silenzi ed informato da un clima teso e corrusco, con una cantante (Elaine Mitchener) che segue le orme della grande Jeanne Lee (emozionante la resa di "Blasè" di Archie Shepp), per un concerto che non ha convinto tutti ma che personalmente ho trovato magnifico, anche nella sua concisione.
Ulteriore conferma di un talento inquieto, mobile e curioso, il solo di Hawkins in spiaggia: un alfabeto solido, austero, jarrettiano senza essere svenevole, come un Bill Evans più obliquo e con più punti di domanda, rivelatorio quando inserisce nel flusso, che quasi pare un contrappunto alle onde del mare lì a due passi, "Take the A Train" di Duke Ellington, riflettendola in uno specchio rotto in mille luminosissimi frammenti: impressionista, scabro, lirico, asciutto, ritmico, come uno Steve Reich immerso in un vortice jazz o un Egberto Gismonti privo di quell’imprendibile quid amazzonico ma pregno di understatement britannico. La chiusa è esplicativa e perfetta, con Johann Sebastian Bach.
Contiamo dunque di tornare anche l’anno prossimo, convinti che anche allora, esplorando i confini tra Sardegna e jazz, avremo occasione di imparare, di sorprenderci, di ricordare la storia, di intravedere le forme del jazz a venire, di emozionarci.
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