Colours of Ostrava, una festa tra le ex-fabbriche
Reportage dal festival Colours of Ostrava, in Repubblica Ceca: quattro giorni di musica nell'ex "cuore d'acciaio" della Cecoslovacchia
«Abbiamo visto che c’è un pubblico di tutte le età, bambini, ragazzi, persone più anziane… è incredibile» dice Pharrell. Pharrell è – insieme ai N*E*R*D* – uno degli headliner del Colours of Ostrava. In effetti è proprio così.
Due cose colpiscono non appena si entra nell’area del festival – il principale evento pop della Repubblica Ceca (esiste dal 2002) e uno dei più grandi dell’Est Europa – anticipato nei giorni precedenti dallo showcase festival Czech Music Crossroads, di cui vi ho parlato qui.
La prima è che – a differenza di molti festival di queste dimensioni – c’è una piacevole atmosfera da fiera di paese: certo, ci sono gli sponsor con i loro stand – una nota marca di whisky e una di sigarette hanno praticamente costruito un villaggio vacanze nel cuore dell’area – ma ci sono anche decine e decine di bancarelle, che cucinano e friggono e impanano ogni sorta di cibo, dai noodles alla pizza ai gustosi bramborak di patate, adorati dal pubblico locale, o che vendono oggettistica, dischi, libri, borse di design…
La seconda è – appunto – che è pieno di famiglie con bambini, di tutte le età: i più piccoli nei marsupi o nei passeggini, tutti con la loro cuffia antirumore che viene venduta allo stand del merchandising; i più grandi sulle spalle dei papà in mezzo alla folla, o che ballano saltando nelle pozzanghere con gli stivaletti (sì, piove per i primi due giorni, e i bambini sono gli unici contenti). È un’atmosfera strana, e per quanto il pubblico dei minori si diradi man mano che la nottata va avanti, Colours of Ostrava non è uno di quei festival in cui i trenta-quarantenni si ritrovano immancabilmente a dividersi il parterre – un po’ imbarazzati – con orde di ventenni in delirio ormonale e/o alcolico. Vige una grande rilassatezza, anche negli affollatissimi eventi principali.
Un discorso a parte merita l’area che ospita il festival, la Dolní oblast Vítkovice, poche fermate di tram dal centro di Ostrava. Qui era – con quell’enfasi un po’ romantica delle definizioni d’oltrecortina –il “cuore d’acciaio” della Cecoslovacchia: uno dei principali centri industriali dell’Est europeo, che raccoglieva nella stessa area una miniera di carbone, i forni per la produzione del carbone coke e una serie di altoforni per ghisa e acciaio. Un’area sterminata di torri, tubi, nastri trasportatori, officine, gru… Chiusa gradualmente dopo il 1989, la centrale di Vítkovice non è diventata uno spettro postindustriale destinato a infestare i sogni degli abitanti di Ostrava. O meglio: sì, lo è diventato – ma in senso buono. Il grande gasometro è stato convertito in uno spettacolare auditorium all’avanguardia; un bunker sotterraneo di cemento armato è ora la cantina, dove gruppi folkloristici accompagnano la degustazione dei vini della zona; una torretta accoglie una enorme palestra per l’arrampicata, con bar annesso. I palchi del Festival compaiono qui e là, incastrati tra le affascinanti strutture serpentiformi che un tempo convogliavano aria verso e da gli altoforni. Su uno di questi si può anche salire, ci sono un piccolo caffè e una spettacolare piattaforma panoramica.
In un posto del genere, la nuda cronaca dei live passa quasi in secondo piano. Come capita con pochi eventi di questo tipo (in Italia, ad esempio), Ostrava è un’esperienza globale: conta molto di più vivere l’area del festival – dal pomeriggio alla notte – che non quali singoli concerti si vedono o non si vedono.
Non mancano comunque le cose notevoli. Il mercoledì, giorno di apertura, vanta headliner di tutto rispetto come George Ezra (bellissimo il suo set, empatico e divertito, con il grande parterre che canta in coro brani come “Budapest”, ormai consacrati come classici), Beth Ditto e i N*E*R*D*. Questi ultimi, per la verità, un po’ deludono: è un concerto-festa, con playback, ballerine e tanto cazzeggio (compaiono anche brevi estratti dall’ultimo singolo di Beyoncé, da “Seven Nation Army” e da “Get Lucky” – hit con Pharrell extra N*E*R*D*).
Il meglio è però – quasi sempre – nei nomi più in piccolo sul cartellone: ad esempio i Dirtmusic di Hugo Race e Chris Eckman, qui nella versione con Murat Ertel dei Baba Zula, con un set ipnotico ad altissimo volume. Due le scoperte del giorno, per quanto mi riguarda: i King Khan and the Shrines, favoloso gruppo di soul-funk-psichedelico da Berlino (ma il leader è di origini canadesi) che infiamma il pubblico del Full Moon Stage: un po’ Sun Ra, un po’ James Brown, un po’ Captain Beefheart, King Khan danza in succinti mantelli, mentre il tastierista suona gli assoli con lo strumento dietro la testa scendendo tra il pubblico. E, soprattutto, i cinesi Re-TROS, freschi di un bellissimo esordio per il mercato occidentale – Before The Applause (Rebuilding The Rights Of Statues – dopo lunga militanza sulla scena di Pechino. Trio rock-elettronico che può ricorda gruppi come LCD Soundsystem o Battles, i Re-TROS passano da pezzi quasi kraut-rock a epiche ballad post-punk, con uno stile unico: ne sentiremo ancora parlare.
Il giovedì è il giorno più debole, in quanto a programmazione sui palchi principali: mi consolo vedendo il concerto degli israeliani Gulaza all’auditorium-gasometro. È un progetto incentrato sul repertorio femminile dello Yemen, su canzoni dolci, spesso melanconiche o drammatiche, passate da madre a figlia per generazioni e rimaste spesso ai margini, come molti repertori che raccontano la solitudine e l’isolamento della condizione femminile. Le interpreta il cantante – di origine yemenita – Igal Mizrahi, con dolce voce androgina, insieme a un piccolo gruppo di chitarra, violoncello e percussioni.
Il festival entra nel vivo il venerdì, in cui tutti i palchi – anche quelli “minori” – a un certo punto sembrano ospitare un headliner. C’è Joss Stone, molto bella e molto brava, che conquista il pubblico con un carisma genuino e uno show di soul bianco (biondo?) in mano a ottimi turnisti. Ci sono i Calexico, i noiosetti Cigarettes After Sex (che però vanno per la maggiore), la diva pop di casa, Lenny – molto nota anche in Italia con il tormentone “Hell.O”, ma che in effetti si chiama Lenka Filipová ed è nata a Praga… fino alla chiusura con Paul Kalkbrenner.
Io punto sullo splendore cameristico del Trio Da Kali, accolto con calore dal pubblico dell’auditorium: una meraviglia di minimalismo tra ngoni, balafon e voce (se non lo avete, recuperatevi il disco con il Kronos Quartet). Per poi passare, senza soluzione di continuità, al rumore di Ifriqiyya Electrique, il progetto del francese François Cambuzat che rilegge in chiave post-rock-industrial il rituale del banga (ne abbiamo parlato qui). C’è chi ha criticato l’approccio a questa musica da trance, che si dipana su tempi lunghi e che è strettamente collegata al suo contesto e alle sue ritualità… Tuttavia, non c’è nel progetto quel compiacimento “esotico” di certa world music: va preso come evento musicale, privandolo della scomoda narrazione della trance e del banga da cui parte. Così considerata, la proposta di Ifriqiyya Electrique è una bomba di rock industriale, fragorosa e incalzante, che costringe a muoversi tra cambi improvvisi di ritmo e strappi del basso distortissimo (a cura dell’italiana Gianna Greco). Irresistibile.
Notevole il set degli Algiers, con il loro rock sperimentale ed ellittico: una band che dal vivo sa veramente dire qualcosa di diverso dalle mille altre band di nuovo rock (che non è mai veramente nuovo), sia come presenza scenica sia come sound. Splendido, infine, il concerto di John Parish, che presenta una scelta dei suoi brani da solo, canzoni e strumentali.
Ma tra un bramborak e una klobasa, è ora di rientrare: mi perderò l’ultimo giorno, con Grace Jones come headliner…
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Ai Docks di Losanna la musica resistente dei veterani Godspeed You! Black Emperor
Il cantautore friulano presenta in concerto l’album d’esordio Hrudja
Un grande live al nuovo Jumeaux Jazz Club di Losanna (con il dubbio che a Bombino lo status di condottiero tuareg cominci a pesare)