David Byrne, ballare (wireless) nell'Antropocene

Il tour di David Byrne arriva a Ravenna Festival: una festa per la testa e per il corpo

David Byrne, Ravenna Festival - Foto Zani-Casadio
Foto Zani-Casadio
Recensione
pop
Paladeandrè, Ravenna
David Byrne
19 Luglio 2018

Prima che inizi lo spettacolo, un cervello su una scrivania nuda, con una sedia, vuota: questo il primo impatto con la tappa ravennate, nell'ambito del Ravenna Festival, dell’American Utopia Tour di David Byrne

Le suggestioni da radio iperintelligente, da videomusica (iconici e indimenticabili i clip di Byrne, sia da solo che con Talking Heads), da Bignami democratico ed ecologista per menti illuminate sono già tutte apparecchiate in questa semplice, efficacissima scena. Sullo sfondo frinire di insetti in diffusione, rumori di foresta, e poi, quando un sipario di persiane hi-tech si alza – bum! – esplode subito la festa: dodici musicisti completamente wireless sul palco, in movimento perenne, seguendo una coreografia calibrata e coinvolgente, per quello che più che un concerto si rivelerà un vero e proprio happening, centoventi minuti di intrattenimento di altissimo livello.

David Byrne, Ravenna Festival Foto Zani-Casadio
Foto Zani-Casadio

"I'm lazy", canta Byrne, ma di pigrizia non vi è alcuna traccia in uno show agile e stracolmo di energia, bilanciato tra i pezzi del nuovo disco (il primo in solo dopo 14 anni) e classici delle teste pensanti: il primo sussulto arriva con "I Zimbra", da Fear of Music, un fulgido prototipo di pop totale, tra armonie africane e una pulsazione atomica e sensuale, che sposta montagne e fa muovere immediatamente le teste del folto pubblico accorso (la data è sold out). Sono tappe di un atlante di uno spaesamento felice, quelle che questo turista del pianeta Terra (“Siamo solo turisti di in questa vita/ solo turisti/ma il panorama è bello”, canta in "Everybody’s Coming to My House") che è facile immaginare con la maglietta I’m only visiting this planet ci propone. "Everybody’s coming to my house and i’m never gonna be alone, and I’m never gonna come back here", e poi "This Must Be the Place", "Home is where I want to be and I guess I’m already there”.

Già qui dalle retrovie molti spettatori si sono alzati per scatenarsi in una danza liberatoria, poi Byrne, studiatamente barcolla, e parte il groove immortale di "Once in a Lifetime": è il delirio, tutti sotto al palco, qualche maschera tenta di arginare la folla, ma Byrne lo rampogna duramente: è il momento di ballare, di lanciarsi su questa giostra che continua a stordire dai tempi in cui venne fabbricata grazie alle sapienti mani di Brian Eno nel disco totem Remain in Light. La meraviglia è intatta: "Same as it ever was".

David Byrne, Ravenna Festival Foto Zani-Casadio
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Tra momenti che ammiccano al forrò brasiliano (la sezione ritmica conta ben sei percussionisti, e non va dimenticato che Byrne è un ascoltatore attentissimo, che ha avuto l’enorme merito di riportare sotto le luci della ribalta un personaggio della levatura di Tom Zé) e qualche frangente un po’ più da karaoke (non tutti i pezzi dell’ultimo disco sono così pregnanti), con un suono sempre molto pieno e luccicante e la cassa in quattro a stabilire il suo magistero, ci ritroviamo comunque in una perfetta stanza pop, accecante nel suo splendore eppure accogliente e super friendly, asettica eppure calda, perfetta ma non distante, anzi, travolgente, quasi una specie di Carnevale ambientato dentro Matrix. Un funk psichico e asciuttissimo, una fanfara senza un filo di grasso, come una versione futurista di una marching band di New Orleans, tra visioni nitide e specchi luminosi che non alterano i profili di canzoni che sono come i servizi di un telegiornale da un mondo senza macchie. Armonie vocali poggiate su fondamenta costruite secondo i sacri tomi della scienza del ritmo, un’orgia di stimoli che rimandano all’arte visiva (Spike Jonze, Michel Gondry, la pittura pop di Roy Lichtenstein), e allora forse anche la signora che guarda lo smartphone invece del concerto stringendo e allargando l’inquadratura sulla silhoutte di Byrne fa parte della coreografia.

Il fatto è che proprio questo tipo di spettacolo è già pensato per un pubblico, quello del pop, abituato a frapporre tra sé e chi suona uno schermo, e infatti scorre via, come un lungo, unico, fantastico video di due ore. Mossa geniale questa, di rendere inutile l’uso ammorbante dei dispositivi, perché è già il concerto in sé ad essere una ininterrotta clip, un assalto ai sensi, un’esperienza.

L’immaginario che viene evocato è smart e a impatto zero, è un rinascimento in un futuro (im)possibile, frutto della mente di un profondo pensatore della musica prima che di un musicista versatile, riconoscibile per un linguaggio a presa istantanea, eppure sempre personale e creativo. Se una certa ripetitività nelle armonie talvolta tende ad affiorare, passa comunque in secondo piano grazie alla scelta di soluzioni sempre intelligenti e capaci di destare curiosità e sorpresa. "Blind", "Burning Down the House", "The Great Curve" (un Fela Kuti liofilizzato in una capsula per nutrire astronauti), "Slippery People", un bis dal disco con Fatboy Slim del 2010 dedicato a Imelda Marcos, il finale con "Hell You Talmbout", un pezzo di Janelle Monàe sulle generazioni di uomini neri uccisi in circostanze che gridano vendetta: e allora solo percussioni, un gospel call and response,”Say his name!”, perché la musica di Byrne è divertimento purissimo ma non rinuncia a raccontare una storia, a mettere in luce le storture alienanti del sogno americano (che è poi anche il nostro, tra menti e confini chiusi e neologismi tremendi come buonista).

David Byrne, Ravenna Festival Foto Zani-Casadio
Foto Zani-Casadio

Ascoltando possiamo avere un’idea diversa del mondo (molto bella la maglietta che viene venduta fuori, e che ritrae un paio di cuffie e la scritta Subjective Laboratory), un posto bellissimo e lancinante (una delle scritte del poster del tour: When I use my credit card, that’s when I think of you), in questo Antropocene avanzato e regressivo, che ci regala progressi straordinari e stupidità a non finire: Byrne osserva tutto questo con ironia, immerso e distante al tempo stesso, con l’intelligenza e la filosofia lieve che solo i grandissimi sanno avere: due ore di gioia piena e tonda.

A j ò fat un sògn, We have a Dream.

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