La formula Südtirol

Il Südtirol Jazz Festival va contro corrente rispetto agli altri festival italiani: nomi nuovi e diversi, jazz europeo, palchi anomali 

Südtirol Jazz Festival 
Foto di Tim Dickeson
Recensione
jazz
Alto Adige
Südtirol Jazz Festival
29 Giugno 2018 - 08 Luglio 2018

Che sia un territorio di confine, di relazioni, di convivenza (con tutte le difficoltà) di lingua e culture come l’Alto Adige a ospitare uno dei Festival più significativi del pur variegato panorama italiano non è certo un caso.

Come scrivevo su queste stesse pagine giusto un anno fa, a commento dell’edizione 2017 del Südtirol Jazz Festival (link cui vi rimando non tanto perché in caccia di qualche click tardivo, ma perché alcune riflessioni rimangono valide e centrali), la manifestazione altoatesina mi sembra un esempio davvero mirabile di progettualità strategica sul rapporto tra performance e territorio – anche quest’anno il festival ha coinvolto decine di luoghi in 18 comuni della Provincia Autonoma – nonché un felicissimo incubatore di idee e affetti per una comunità che si rinnova.

Foto di Tim Dickeson - Sudtirol Jazz Festival
Foto di Tim Dickeson

In questa edizione 2018 il “focus” era dedicato (principalmente, ma non esclusivamente) alla scena nordica, ad artisti – circa 170 quelli coinvolti complessivamente – dei paesi scandinavi e baltici. Una scena, forse sarebbe più corretto parlare di scene, che siamo abituati ormai a considerare tra le più interessanti e attive in Europa, nonché tra le meglio supportate dalle proprie istituzioni.

In questa possibile prospettiva, va ascritto alla coraggiosa visione del direttore artistico Klaus Widmann il merito di avere programmato nomi tutt’altro che scontati, puntando su progetti giovani e su artisti da coinvolgere anche in commissioni esclusive e nuove collaborazioni. Ecco quindi, a titolo puramente esemplificativo, dalla Finlandia il sassofonista Pauli Lyytinen o il trombettista Verneri Pohjola; dalla Danimarca la sassofonista Maria Faust  o il percussionista Stefan Pasborg;  dalla Norvegia combo interessantissimi come Building Instrument, Megalodon Collective o il trio Splashgirl; dalla Svezia la voce di Hannah Tolf, il fuoco della Carliot Orchestra o quello – per antonomasia – dei Fire! (protagonisti di un bel concerto notturno con la voce di Mariam Wallentin ospite).

Sudtirol Jazz
Maria Faust (foto Tim Dickeson)

Proposte fresche, in grado di dialogare con un pubblico estremamente curioso e variegato, anagraficamente aperto (ho visto con i miei occhi un compìto pensionato altoatesino, certamente almeno settantenne, comperare in blocco la discografia – 5 tra cd e vinili – degli Splashgirl dopo il concerto!), pienamente calate nel contesto ambientale, la sala di un museo o un bosco, la cima di un monte o la piscina di un grande albergo…

Da notare anche la forte presenza femminile tra gli artisti invitati: un tema centrale nelle politiche del jazz europeo (se ne sta parlando molto in conferenze e meeting, nonché all’interno di Europe Jazz Network) e che qui trova una sua naturalezza: non solo cantanti – diverse quelle in cartellone, a conferma di un interesse per la voce nelle nuove progettualità del Nord Europa – ma anche strumentiste originali come la batterista Anna Lund, la fagottista francese Sophie Bernado, le sassofoniste Hanna Paulsberg e Julie Kjaer e altre ancora…

Non manca, nell’ampio sguardo del Festival, anche la capacità di connettere strategicamente le eccellenze italiane (specie delle generazioni più recenti) con quelle continentali: quest’anno la collaborazione tra il chitarrista olandese Reinier Baas e il quartetto Frontal di Simone Graziano, oltre al consueto e multiforme progetto Euregio.

Sudtirol Jazz
Verneri Pohjola e Mika Kallio (foto di Tim Dickeson)

È una prospettiva europea voluta e ribadita, quella costruita da Widmann e dal suo ottimo staff: un lavoro che si nutre della presenza di critici, fotografi (tra cui Tim Dickeson, che è autore di molti dei begli scatti a corredo di questo articolo e che ringrazio), operatori e direttori artistici da ogni parte di Europa e anche dagli Stati Uniti, uno sguardo, sia chiaro, che va ben al di là dell’assicurarsi qualche articolo per “inciccionire” la rassegna stampa da presentare all’assessore o qualche invito ricambiato, e che invece è testimonianza viva della ricchezza di collegamenti che questa comunità chiede e offre.

Una prospettiva europea in cui l’assenza di musicisti americani – che, lo scrivevo l’anno scorso e ribadisco, non è di per sé un titolo di merito o di demerito, ma una scelta che trae eventualmente il proprio senso da quello che costruisce – racconta l’esistenza di una comunità di musicisti e ascoltatori che si identifica in una creatività musicale di cui il “grande albero” della tradizione afroamericana rappresenta solo una delle fonti. Rispettata, presente, evocata, ma comunque un albero da cui potersi anche allontanare se l’indole creativa lo chiede.

In questa prospettiva la presenza in cartellone di molti linguaggi (elettronici, cantautorali, di matrice folk, post-rock, ambient, totalmente sperimentali) che si distanziano dal “canone” jazz, trova una sua collocazione naturale, ben sottolineata dalla collocazione vera e propria – in mezzo a un incrocio stradale pedonale nel cuor della sera, come per il fantastico e seguitissimo set dei Wildbirds & Peacedrums; in relazione all’arte presente al Museion come nel caso del bel duo tra Verneri Pohjola e il batterista Mika Kallio; tra gli alberi di un bosco, pura megia, come è accaduto agli Splashgirl; sopra una piscina, come accaduto ai norvegesi Broen che hanno festeggiato con un tuffo… – e dall’idea di allacciare legami emotivi che vadano al di là della ormai spesso consunta relazione tra uno stile e la sua storica fan-base.

Sudtirol Jazz
Foto di Enrico Bettinello

Agisce controcorrente rispetto alla vulgata curatoriale nazionale, Klaus Widmann: laddove direttori artistici anche esperti sogghignano a mezza bocca confessando che “sono costretti” a chiamare chi gli fa botteghino, si ostina a offrire al pubblico un’esperienza prima ancora che il nome di una band; laddove in presenza di beni artistici e naturali straordinari (come fortunatamente è frequente nella nostra penisola) ci si limita spesso a costruire un palco in piazza, in Alto Adige ogni concerto ha una specifica relazione, spaziale e artistica, con il luogo che lo ospita.

Certo, i concerti non sono mai pensati per un numero troppo alto di spettatori, ma è anche questa una scelta – e alla fine dei dieci giorni di Festival sono svariate migliaia le persone coinvolte – ed è una scelta che racconta di come il jazz possa e forse debba ragionare in termini di significatività del rapporto instaurato prima ancora che nel numero di biglietti staccati (una necessità di cui anche al MiBACT, purtroppo, non si è riusciti ancora a dare il giusto peso).

Nell’Europa che ha la tentazione di costruire muri, una realtà di confine come quella del Südtirol/AltoAdige Jazz Festival costruisce relazioni. E funziona.

A me sembra un segnale molto interessante che Widmann e il suo staff possono condividere a livello nazionale e continentale: la presenza di un nuovo pubblico domani passa anche da queste cose.

Sudtirol Jazz
Fire! (foto di Tim Dickeson)

 

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