Violini barbari a Gualtieri
Al Teatro Sociale Les Violons Barbares, archi e voci antiche tra Francia, Bulgaria e Mongolia
I ragazzi del Teatro Sociale di Gualtieri – un posto magnifico in una piazza metafisica nella bassa zavattiniana, un progetto coraggioso e realmente popolare che festeggia quest’anno la sua decima stagione, e che è stato eletto a luogo del cuore da uno come Ezio Bosso – in apertura del concerto parlano di contaminazioni, di porti aperti in un’epoca in cui vengono tristemente chiusi.
Sarebbe comodo e facile partire da qui per descrivere il concerto de Les Violons Barbares, un trio con base in Francia ma che fa incontrare il paese dei cugini d’oltralpe (nella persona del percussionista Fabien Guyot) con l’est della Bulgaria (Dimitor Gougov, alla voce e alla gadulka, una sorta di lira con tre corde suonabili e undici che vibrano per risonanza, quasi si trattasse di una tampura indiana, producendo un effetto che ricorda la ghironda) e l’oriente remoto e ancestrale della Mongolia (Dandarvaanchig Enkhjargal, al morin khoor, un violino dei tempi di Gengis Kahn, e al canto diplofonico).
Musica per abbattere le barriere, dunque, e quindi steppe, nenie, folklori d’altrove, mondi possibili, viaggi da fermo: invece non tutto funziona nella proposta musicale del trio, che all’inizio suona praticamente un post-punk primitivo, diverso da quello bianco solo perché suonato con timbri diversi, ma in realtà solidamente poggiato su strutture, melodie e dinamiche prettamente rock. L’inizio dunque non convince più di tanto, anche a causa di un battimani iniziale stimolato dal batterista di cui chi scrive non avrebbe sentito la mancanza.
Le cose si mettono decisamente meglio quando finalmente prevale l’anima veramente folk e sono spazi senza limite, lunghi piani sequenza guidati da melodie arcaiche, dove il bordone e melodie che non hanno tempo convergono verso uno stesso orizzonte nitido, primitivo, estatico: quando il cantante delle steppe asiatiche resta solo e ci offre una piccola canzone insegnatagli dai suoi genitori si tocca la vetta del concerto: musica per cui non ci sono parole, lo stesso senso di rapita meraviglia e di babele commossa che tocca il centro esatto del cuore, come succede ascoltando la Anthology of American Folk Music di Harry Smith, Bilé inferno di Vaclaceck/Bittovà o come di recente è capitato con il disco e il live dei magnifici Sirom, dai dintorni di Lubjana (I Can Be a Clay Snapper, Tak:til/Glitterbeat 2017, se non li conoscete, correte a recuperarli, non ve ne pentirete).
È ancora una volta la magia di una Amazing Grace non americana ma che viene da terre che sono in qualche modo dentro di noi e che anche Leopardi cantò. In questo momento, come nel frangente in cui Gougov, istrionico e brillante, resta solo e ci spiega il funzionamento del suo strumento, venendolo a suonare in mezzo alla platea e regalando una "Danse à Helène", per la figlioletta, la musica è potente e intima, universale. Lo stesso si può dire per i momenti in cui la voce di Enkharjal si trasfigura, assumendo via via le fattezze di quella di un bambino, di un gigante, di un nano, di uno sciamano.
Molto interessante anche l’incipit di "Stravinsky Lost in the Desert", una composizione del percussionista (per il mio orecchio in molti momenti troppo presente ed enfatico) che su un rutilante 4/4 fa intravedere un cielo nero di lampi, tuoni e saette, anche se poi si cade un po’ nel risaputo con un andamento da marcia che non convince.
Probabilmente il limite del progetto, che in realtà per la stragrande maggioranza del pubblico accorso (teatro stracolmo per il concerto) è stato un pregio, a giudicare dagli applausi scroscianti, è in questo voler rendere pop, confortevole in qualche maniera, ammiccante, ciò che pop, o rock, non può essere; l’equilibrio in questo senso viene spostato a mio modo di sentire in particolare dal percussionista, certamente virtuoso e a suo totale agio in un set assortito in modo interessante, ma penalizzato da un approccio un po’ troppo da stadio; timbri sottili e arcani come quello dei due violini dei suoi complici (loro sì davvero barbari, nella loro intima voce, strumentale e non) avrebbero richiesto altre sottolineature e più spazi vuoti.
Come diceva James Brown, che anche se qui è totalmente fuori contesto in qualche modo c’entra sempre, il groove si fa con il vuoto. Guyot a un certo punto ha abbandonato la sua frenesia ritmica per concentrarsi sugli abissi risonanti del suono prodotti da un piatto percosso con un battente: ci fossero stati più momenti di questo tipo me ne sarei andato entusiasta. Non è andata così, ma brillano ancora gli occhi al pensiero di quei pochi minuti di magia quando siamo tutti finiti in una yurta, in Mongolia, grazie alla voce imprendibile di un cantante (le brevi e magnifiche diplofonie con cui punteggiava i pezzi, momenti in cui produceva più suoni contemporaneamente con la voce portandoci al tempo stesso vicinissimo e lontano, avrebbero meritato più spazio), finito grazie alla lungimiranza dei ragazzi del teatro sociale sul palco di un posto che merita grande plauso, attenzione e fattivo supporto.
Rivediamoci al Teatro Sociale, tra teatro e musica ne vedremo delle belle, da qui fino a fine settembre.
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