Sax solo e ruggine hardcore: l'ultimo weekend di Novara Jazz
De Beren Gieren, Young Mothers e il solo di John Surman a San Gaudenzio chiudono l'edizione 2018 di Novara Jazz
Finale con I fuochi d’artificio per la quindicesima edizione di Novara Jazz, un festival che si conferma come uno dei più coraggiosi e interessanti in Italia senza ombra di dubbio; basti solo dire che hanno calcato il palco del Broletto a questo giro Horse Lords, che di jazz probabilmente hanno molto poco, ma sono però una band molto coinvolgente e capace di un suono decisamente attuale – come in realtà si è dimostrato sia quello di De Beren Gieren, un giovane trio belga classico nella formazione (piano, contrabbasso, batteria) , ma per nulla nei risultati, e The Young Mothers, travolgente sestetto americano guidato dal bassista norvegese (ora residente in Texas) Ingebrigt Haker Flaten, già con The Thing assieme a Pal Nilssen-Love e Mats Gustaffson.
Un plauso dunque alle direzione artistica del festival, lungimirante nel proporre nuove formazioni capaci di proporre qualcosa di raramente sentito assieme a nomi che hanno fatto la storia, come quello di John Surman, ascoltato in solo il sabato mattina nella splendida cornice della basilica di San Gaudenzio.
De Beren Gieren sovvertono le regole del classico piano trio grazie a un approccio libero e spigoloso, sorprendente nel frugare in angoli remoti della contemporaneità: il pianista ammucchia shangai sottili eppure solidissimi, ritmi dispari pulsano in un meccanismo perfettamente calibrato dove un contrabbasso essenziale e rotolante dialoga in modo fluido con un batterista che sa distinguersi per idee sempre puntuali e la capacità di mettere la punteggiatura sempre esattamente dove serve. Tutto questo all’interno di un discorso che cattura istantaneamente l’attenzione, perché coniuga con freschezza e sapienza ipnosi matematica, modularità minimalista, vertigini psichedeliche, un quid quasi tribale e allucinato, pur in un grande nitidezza nella composizione, nell’esecuzione, nel feeling che arriva.
Musica in ottimo equilibrio tra furia scomposta e controllo totale, fluida, selvatica eppure rigorosa: come se un trio di irrequieti interpreti da conservatorio fosse stato lasciato da un qualche produttore visionario e dispettoso in una foresta virtuale – e dunque del tutto reale – potendosi nutrire solo di piante allucinogene: i pezzi degli "orsi che ridono" (questo il significato del nome della band, spiega in ottimo italiano il pianista Fulco Ottervanger) portano via, e già nei titoli ("Il peso di una foto", "I biscotti della notte") svelano un’anima intimamente surreale, un gusto patafisico che potrebbe da un lato far pensare a un’attualizzazione di certe spirali canterburiane, mentre dall’altro ricorda un incontro felicissimo tra certo free europeo e i pattern feroci ed inesorabili di Steve Coleman, oppure dei Ronin di Nick Bartsch.
Sono comunque solo suggestioni per inquadrare, almeno parzialmente, una formazione di grande personalità, che ha suonato benissimo e di cui certamente sentiremo ancora parlare.
Altrettanti punti esclamativi merita l’esibizione a seguire di The Young Mothers, un sestetto con sax (Jason Jackson), voce, tromba e beats elettronici (Jawwaad Taylor), chitarra (Jonathan F. Horne) basso e contrabbasso (il già citato Flaten) e doppia batteria (Frank Rosaly e Stefan Gonzales, anche al vibrafono e alla seconda voce). Il live è, senza mezzi termini, una bomba: groove possenti di basso sostenuti da un Frank Rosaly che ha la grazia di un acrobata e l’istinto di un assassino (ogni attacco è un colpo al cuore), poliritmie incalzanti che non lasciano scampo sulle quali il cantante snocciola il suo rap nervoso e free style che somiglia da vicino alla spoken poetry, mentre Gonzales (con un look da biker e una faccia che lo rendono un perfetto, improbabile e credibilissimo incrocio tra l’attore Paul Giamatti e Thor Harris, l’ex vibrafonista degli Swans) ogni tanto interviene con crudi intermezzi praticamente death metal (uptempo di batteria e voce scuoiata), del tutto inaspettati e per questo benvenutissimi.
Una musica vulcanica, urgente, un perfetto prototipo di punk jazz al quale aggiunge ulteriore lava Horne alla chitarra, acido e funky senza essere mai didascalico. Un afflato orchestrale muove i pezzi che si susseguono in una sequenza incalzante che soddisfa testa, cuore e stomaco: le giovani madri hanno partorito un suono unico, all’incrocio tra febbre da anni Settanta pura gioia free, rap futuribile ed enfasi rock, con un respiro e un approccio a metà tra gigantismo wagneriano e ruggine hardcore (che è quel quid che spesso ritroviamo nelle produzioni di certi musicisti scandinavi, si pensi a certe cose della Fire! Orchestra o alla Large o Extra Large Unit di Pal Nilssen-Love). Un live letteralmente strabiliante, che in più di un momento ha strappato applausi e sorrisi anche prima della fine dei pezzi. Dinamite pura.
A chiudere la mia breve (ma l’anno prossimo necessariamente dovrò approfondire meglio) trasferta novarese, una mezz’ora di solo del grande John Surman in basilica il sabato mattina alle 11. Tre improvvisazioni (due al sax soprano, una al clarinetto basso – personalmente avrei preferito forse più clarinetto basso, uno strumento con un suono che non fa prigionieri, mentre forse il soprano è un poco più consolatorio) che non fanno altro che confermare la grandezza di un maestro, tra respirazione circolare, gighe celtiche, sospensioni e pause melodiche profondamente classiche: un tuffo ad occhi chiusi in quello che David Toop anni fa chiamò l’Oceano del Suono.
Ci vediamo l’anno prossimo a Novara.
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