Pipe Dream e Zenophilia, sogni jazz a Correggio
Il gruppo Pipe Dream di Hank Roberts e il trio Zenophilia di Zeno De Rossi per la chiusura di Correggio Jazz
Chiusura col botto per la sedicesima edizione di Correggio Jazz, una rassegna che da sedici anni oramai colma, e lo fa molto bene, l’inspiegabile (?) vuoto venutosi a creare a Reggio Emilia.
Grazie a una direzione artistica capace di mediare efficacemente tra proposte coraggiose e scelta un poco più risapute ma dal maggiore appeal per chi non segue da vicino le vicende musicali, oltre che per una intelligente e finalmente popolare (deve essere o no, musica del popolo, nel miglior senso possibile del termine, il jazz ?) politica dei prezzi (nella serata in questione il biglietto per un doppio set costava 8 euro, davvero non è possibile chiedere di meglio), la kermesse del paese che ha dato i natali al Ligabue mediano che tutti, volenti o nolenti, sappiamo, si è oramai stabilmente consolidata come un punto fermo all’interno del panorama jazz nazionale.
Da metà maggio al 1° giugno Correggio Jazz ha portato nel bel Teatro Asioli musicisti di varia estrazione e provenienza, dall’Armenia a Cuba, dagli Stati Uniti all’Italia. Davvero molto buono il doppio set a cui abbiamo assistito nell’ultima serata. Apre Zenophilia, il trio del batterista Zeno De Rossi (per citare i primi che vengono in mente: Rope, Guano Padano, Franco d’Andrea, protagonista di un bel concerto in trio con Daniele D’Agaro e Mauro Ottolini solo due giorni prima) con Filippo Vignato al trombone (già ammirato con gli ottimi Ghost Horse nella serata del 23 maggio sempre qui ) e Piero Bittolo Bon al sax alto (in un pezzo, “Red Bird”, dedicato a Sergio Candotti, anche al flauto basso).
Atmosfere à la Buster Keaton o comunque avvolte da un sottile alone di stupore filmico, di innocenza perduta, una pulsazione da marching band ossuta e sbilenca, le composizioni si reggono su pochi, efficacissimi elementi. De Rossi come autore (suoi tutti i pezzi, tranne una cover di un pezzo di Henry Glover, “Drown in My Own Tears”, portata al successo da Ray Charles nel suo periodo Atlantic) ha una penna felice, naturale, incline al songwriting. Brani brevi, ariosi, minimali e ipnotici, avvolgenti, ora sornioni, ora notturni, ora incalzanti (“Babu”, dedicata al suo primo figlio) come nella migliore tradizione della jungle. Cappotti, cadillac, whisky, l’America in bianco e nero, la terra delle possibilità, I have a dream, il pollo fritto, i gangster con la faccia alla James Cagney, fantasmi africani della Louisiana: tutto questo immaginario convive, come in un meccanismo calibratissimo, in questi mondi rotondi e gentili, privi di asprezze, ma non per questo didascalici. Peccato solo che nella scaletta non sia stata inclusa la bellissima versione del tema di Taxi Driver del Maestro Bernard Hermann: con i tempi che corrono, un po’ di Travis Brickle forse non ci avrebbe fatto male.
A seguire Pipe Dream, ovvero un sogno irrealizzabile, come da vocabolario. E allora, come in ogni sogno che si rispetti, restano solo frammenti, e un sapore di rapimento insonne, di esperienza liminale del risveglio, come diceva Walter Benjamin.Il violoncello e la voce di Hank Roberts aprono spazi, grandi come la voce dell’America, e ricordano le distese meditazioni di certo Bill Frisell (di lungo corso la frequentazione tra i due). Vignato al trombone a volte fa le veci del basso che non c’è e si dimostra nuovamente un musicista ispirato e talentuoso, già in piena fioritura e al tempo stesso di grande prospettiva, Giorgio Pacorig spazia tra il Fender Rhodes e il pianoforte e riesce sempre a poggiare le dita proprio dove non te lo aspetteresti mai, senza mai un momento di stanchezza, senza mai cincischiare, sicuro e acrobatico, feroce e raffinatissimo, interrogativo e mai interlocutorio. Uno dei migliori pianisti che abbiamo in Italia (e non solo), per quanto mi riguarda. La bravura di Pasquale Mirra è poi fuori discussione, il suo vibrafono è una scia brillante, anche se in questo progetto riluce forse un poco di meno (per chi scrive le situazioni di improvvisazione totale e il solo sono probabilmente le dimensioni più congeniali a questo talento cristallino) e Zeno de Rossi alla batteria (doppio set dunque sia per lui sia per Vignato in questa serata) mette in ordine le cose con eleganza e rendendosi quasi invisibile, come solo i migliori musicisti sanno fare.
Cosa suonano i Pipe Dream? Il quintetto si muove con grande scioltezza tra songwriting che indulge al folk, stanze novecentesche dove filtrano echi di spartiti europei, spiritual per un mondo dove la gravità è solo un ricordo e una sottile vena psichedelica che permea ogni angolo di una musica imprendibile, dotata di una leggerezza calviniana, che ci regala una sorta di nostalgia di futuro e la promessa che anche la prossima volta saprà centrare il centro esatto del bersaglio come ha fatto questa sera. Ci vediamo l’anno prossimo a Correggio.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
A ParmaJazz Frontiere il rodato duo fra il sax Evan Parker e l'elettronica di Walter Prati
Il Bobo Stenson Trio ha inaugurato con successo la XXIX edizione del festival ParmaJazz Frontiere
Si chiude la stagione di Lupo 340 al Lido di Savio di Ravenna, in attesa di Area Sismica