Circuits Des Yeux, capolavoro in indaco
La voce potente ed evocativa di Haley Fohr, al quinto album come Circuits Des Yeux
Una voce potente ed evocativa, quella di Haley Fohr – alias Circuit Des Yeux –, artista residente a Chicago, nel cui sottobosco musicale ha allevato il proprio talento. Inizialmente devota ad aspre sonorità fra l’atonale e il rumorista, si è approssimata via via alla forma canzone, in particolare nella recente divagazione country compiuta mascherandosi dietro l’alter ego Jackie Lynn.
Il nuovo lavoro, quinto della serie siglato dallo pseudonimo che viceversa la caratterizza da sempre, ha con essa relazione di stretta parentela (esemplare è qui la struggente “Black Fly”), tanto quanto con il precedente firmato Circuit Des Yeux, In Plain Speech (2015). Volendo racchiuderlo in formule, impresa in sé ardua, potremmo affermare che si tratta di un’elaborazione avant-garde dei canoni folk ispirata alla libertà espressiva del jazz più spregiudicato e influenzata dalle suggestioni della scuola minimalista.
A dispetto degli esordi, costituiti da musiche senza parole, al centro della scena sta adesso la voce: segno che Fohr ha dovuto cercarne una sua. L’approdo cui è giunta è sbalorditivo: dotata di un’estensione di quattro ottave, ancorata a un tono da baritono che rimanda a Scott Walker, può riecheggiare di volta in volta modelli femminili quali Nico, nell’elegiaca “Brainshift”, Diamanda Galás, durante l’impetuosa “A Story of This World Part II”, o addirittura Meredith Monk, nella parte iniziale di “Paper Bag”.
È questo, non solo per la posizione in sequenza, l’episodio centrale del disco. Costruito intorno a un loop circolare che sa di Steve Reich e Terry Riley, su cui gorgheggia con virtuosismo la protagonista, si tramuta cammin facendo in una ballata acustica scandita in controtempo, aperta dalla secca esortazione: “Ficca la testa in una borsa di carta e vedi cosa trovi”.
I testi sembrano perlustrazioni psicanalitiche e riflettono il senso dell’esperienza insieme traumatica e catartica che nelle note di copertina l’autrice sostiene essere stata d’impulso al concepimento dell’opera. Un viaggio spirituale verso il color indaco citato nel titolo, per affrontare il quale Fohr non ha esitato a impiegare registri differenti: dal pathos cameristico di “Philo” al mantra in chiave blues di “Geyser”, fino alla solennità mistica della conclusiva “Falling Blonde”. Il risultato è un album in cui all’audacia formale corrisponde una straordinaria forza emotiva: stigma associato in genere ai capolavori.