I Radiohead e lo spazio

Una riflessione sulla band di Thom Yorke oggi, vista dall'Autodromo di Monza

Recensione
pop
Indipendente Monza
16 Giugno 2017

Ai due concerti italiani dei Radiohead alla fine, almeno a giudicare dai social, c’erano un po’ tutti (nonostante il buffo tentativo di montare un caso sui biglietti rivenduti su Facebook, sulla base di un paio di casi nella cerchia di qualche giornalista). In effetti, 50mila persone a Firenze alla Visarno Arena, e 55-60mila all’autodromo di Monza, non sono poche. Soprattutto non sono poche per i Radiohead. Molti, moltissimi, hanno scritto dei concerti (molto curioso visto che la pratica della recensione del live è sempre più in declino, specie sui quotidiani: i Radiohead anche in questo sono un’eccezione). Moltissimi non hanno risparmiato gli aggettivi (“sublime”, “lucidamente visionario”) per raccontare un live di livello altissimo, ma che proprio per la sua eccezionalità meriterebbe qualche riflessione in più del rifugiarsi nelle iperboli. Una riflessione che – mi pare – non è stata più di tanto fatta riguarda proprio lo spazio dei concerti in rapporto a che cosa i Radiohead hanno suonato, e alla direzione che ha preso la loro musica negli ultimi anni. I Radiohead non sono mai stati una band da “stadium rock”. Forse lo potevano diventare in qualche punto fra Pablo Honey e The Bends, ma con OK Computer – e più decisamente con la coppia Kid A/Amnesiac – la direzione era ben chiaramente un’altra. Questo non significa che la musica dei Radiohead non sia adatta alle grandi masse di persone. Significa che quello spazio non è mai stato incorporato nella loro musica, non è mai stato – per così dire – previsto nella produzione dei loro album. Mentre altre band uscite dagli anni Novanta hanno progressivamente aggiunto grandezza alla loro musica, i Radiohead piuttosto ne hanno progressivamente sottratta. Il caso più lampante è quello di Coldplay e Muse, due band non a caso reclamizzate a un certo punto – alla fine dei Novanta – come “nuovi Radiohead”, e finite piuttosto a occupare lo spazio (anche in senso fisico) degli U2, con produzioni magniloquenti e in qualche modo già predisposte per suonare bene in grandi ambienti: la dimensione dello stadio, insomma, è già dentro la loro musica, nell’uso dei riverberi, nella disposizione degli strumenti, persino nella retorica delle canzoni, nei cori, nelle armonie… I dischi dei Radiohead dell’ultimo decennio anzi, in particolare In Rainbows (2007, dieci anni esatti), The King of Limbs e in parte l’ultimo A Moon Shaped Pool sono piuttosto andati nella direzione opposta. Eppure, almeno in Italia, i Radiohead hanno suonato in spazi sempre più ampi: io li ho visti alla prima volta al Lazzaretto di Bergamo nel 2003, poi all’Arena Civica di Milano, all’Arena Parco Nord di Bologna (e ci fu una polemica perché il concerto fu spostato lì dalla più piccola Piazza Maggiore, per vendere più biglietti), e infine all’Autodromo di Monza, in una dimensione più da U2 che non da Radiohead. Perché? Evidentemente, i Radiohead hanno aumentato il loro pubblico: chi li andava a vedere nel 2003 li va ancora a vedere. Chi nel 2003 era bambino, li va a vedere oggi. O più in generale, è diverso il ruolo del live nell’industria della musica, ora che il disco ha perso valore economico… chi lo sa. L’aspetto interessante è che – mi pare – i Radiohead non hanno modificato sostanzialmente il loro modo di suonare dal vivo, di concepire il live. I maxischermi di Monza erano tutto fuorché dei maxischermi da grande evento rock: usati per lo più per visual molto minimali, di tanto in tanto per dei collage di particolari sul palco. Mai un primo piano di Thom Yorke (neanche quando si esibiva nel suo improbabile italiano), mai uno stacco su Greenwood durante i soli. Erano rigorosamente spenti nelle pause fra i pezzi, quando restava solo un triangolo di riflettori bianchi sul palco. Risultato: un concerto in cui i Radiohead – se non si è nella calca proprio sotto il palco – non si sono visti. Ed è stata una scelta esplicita e significativa. Neanche la scaletta, per quanto abbia pescato anche nei classici (“Paranoid Android”, e il finale “cazzone” di “Creep”, che i cinque hanno ripreso a suonare con evidente autoironia) non asseconda più di tanto la dimensione-stadio. Addirittura si comincia con due pezzi lenti, intimi e in minore come “Daydreaming” e “Desert Island Disk”, quando c’è ancora luce e il cielo si colora di rosso: sulla carta la scelta più sbagliata possibile. Certo, compaiono subito dopo pezzi più “rock” come “15 Step”, “Myxomatosis” e “The National Anthem”, ma alla fine sono ben cinque i brani da In Rainbows – non certo il disco più “mosso” del gruppo – a pari merito con quelli da Ok Computer. Alla fine, se cambia qualcosa, cambia l’intenzione: il concerto di Milano è stato un concerto sporco, pieno di stecche (l’attacco di “Airbag”, gli accordi di “Pyramid Song”…) – un concerto bellissimo anche per questo, per questa dimensione suonata e umana che non è facile riconoscere in eventi di queste dimensioni. Quando – per quanto si possa capire dalla distanza – la band potrebbe pure schiacciare Play e uscire.

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