Male Teste, ironia, seriosità e anarchia

I canti anarchici riletti dall'ottetto di Stefano Risso al FolkClub di Torino

Recensione
jazz
Folkclub Torino
31 Marzo 2017

«Quando l’idea di fare un progetto sui canti anarchici è nata – spiega il contrabbassista Stefano Risso al pubblico del FolkClub – io ho subito insistito per avere un gruppo piccolo, per non essere paragonati alla Liberation Orchestra». Proposito subito venuto meno: le Male Teste, dal nucleo iniziale di trio più voce (con il contrabbasso di Risso, la batteria di Mattia Barbieri e il sax alto di Simone Garino, oltre alla cantante Elena Urru) si sono anarchicamente espansi fino a un ottetto, con nutrita sezione fiati (Marco Tardito al baritono, Tolga Bilgin alla tromba, Alberto Borio al trombone) e un pianista (Fabio Gorlier). Soluzione certo più dispendiosa e impegnativa (ammettiamolo: non è che oggi i festival italiani facciano la fila per ingaggiare ottetti di jazzisti dediti ai canti anarchici…) ma che fa emergere al meglio l’originalità del lavoro di scrittura di Risso. I suoi arrangiamenti brillano soprattutto nelle parti pianoless affidate al quartetto di fiati, che evocano nei fraseggi e nelle armonie – forse – più alcune cose di area Blue Notes / Ogun, o talvolta quei fiati alla Éthiopiques, che non l’orchestra di Charlie Haden.

Il repertorio si concentra sui versanti spagnolo e italiano del repertorio anarchico, con qualche licenza poetica: da un lato “A las barricadas”, una energica versione de “L’estaca” di Luis Llach, “Gallo rojo, gallo negro”. Dall’altro, “Amore ribelle” (con un bellissimo arrangiamento di fiati e la partecipazione del coro “residente” del FolkClub, l’Union des Amis Chanteurs), una versione vagamente psichedelica di “E anche al mi’ marito”, una rilettura destrutturata e ironica del classico “Il galeone”. Più “Quei briganti neri” (che da un canto anarchico deriva) e una coda molto caciarona con “Bella ciao”.

Il concerto al FolkClub (ottima l’affluenza di pubblico) ha mostrato che il progetto delle Male Teste funziona, pur non inventandosi nulla. Qualità di scrittura e ottimo livello degli strumentisti a parte, funziona anche per la bella voce di Elena Urru (anche al violino), lontanissima da ogni birignao da “cantantejazz”, pulita nella dizione e sufficientemente distaccata da poter interpretare credibilmente la lingua (spesso arcaica e non così musicale) dei canti anarchici senza trasformarli in polpettoni melodrammatici, o standard senz’anima su cui esercitare uno stile.

E funziona perché le Male Teste, in fondo, riescono (quasi sempre) a mantenere un buon equilibrio fra la seriosità di fondo dell’operazione – sempre di canti che parlano di morte e sopraffazione si tratta – e un’ironia, una leggerezza, un divertimento sul palco (un’anarchia?) che alleggeriscono il tutto. Attendiamo il disco.

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