Il "Parsifal" di Thielemann
Salisburgo: fischi per la regia di Schulz
Recensione
classica
Cominciamo dalla fine. Un osanna per Christian Thielemann (nella foto) e la sua Staatskapelle di Dresda tutti schierati in palcoscenico, per la prima volta al Festival di Pasqua di Salisburgo, una vera e propria incoronazione. Un buu interminabile, senza appello, invece all'indirizzo del team responsabile dello spettacolo, il regista Michael Schulz, lo scenografo e costumista Alexander Polzin. Giudizi pienamente condivisibili. Più che un'esecuzione straordinaria, quella di Thielemann infatti è parsa una traiettoria lucida e decisa che ha innervato tutta la partitura di "Parsifal". La sua orchestra non ha nulla da invidiare ai Berliner, che dopo 45 anni hanno lasciato Salisburgo per il festival di Baden Baden, col vantaggo che ha maggiore abitudine a rispettare le voci, ma forse anche questo è merito di Thielemann. Che tra l'altro ha voluto riprendere alcune usanze di Bayreuth: al buio in sala l'attacco immediato (a Bayreuth giustificato dall'invisibilità del direttore), mentre il tentativo d'impedire gli applausi alla fine del primo atto, per rispetto al mistero sacro, non è del tutto riuscito.
La scena del secondo atto è senza dubbio la migliore, il regno di Klingsor (il bravo Wolfagang Koch che impersona anche Amfortas) è un deposito di statue di divinità classiche e orientali che hanno i loro doppi appesi al soffitto a testa in giù. Anche il mago ha un suo doppio, un nano, la sua apparizione con la fatidica lancia è l'unico momento di mistero inquietante in tutto lo spettacolo. Il resto invece è un continuo e forzato accavallarsi di simboli e controscene di difficile decifrazione. C'è per esempio un Cristo a torso nudo, accompagnato da un uomo nero, pure questo un doppio. Potrebbe essere una proiezione di Kundry (Michaela Schuster, autorevole di voce e presenza scenica) che in una vita precedente l'ha dileggiato sul calvario, ma un tratto il Cristo stramazza morto, l'uomo nero allora si spoglia e amoreggia con la donna. Al termine del terzo atto viene trafitto dalla lancia (il suo sangue simboleggia il miracolo del Venerdì Santo) e insieme con lei organizza un tableau vivant con il Crocefisso e la Maddalena ai suoi piedi. Ma non sarà Kundry a morire, bensì Amfortas che fino all'ultimo non si rassegna a rinunciare ai suoi giochi erotici con una ragazzina e un ragazzino tatuati. La maggiore perplessità la creano però i cavalieri del Graal, tutti in tuta e scafandri bianchi che ricordano degli operatori di una centrale nucleare o gli spermatozoi del film di Woody Allen "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso...", in un inutile e continuo tentativo d'inventarsi una ritualità. Altro intervento difficile da spiegare, quello di Kundry che nel secondo atto strozza il nanerottolo. In tutto ciò a primeggiare è senz'altro il Gurnemanz di Stephen Milling, voce calda ed espressiva; mentre Parsifal è costretto nelle misure extra large di Johan Botha che obbligano il tenore, pur generoso di voce, a una gestualità impacciata e pochi passettini appesantiti. Ne risulta un Puro Folle obeso, per di più vestito con una giacchetta verde pisello maculata di fogliame marroncino. Se il costumista voleva fargli un dispetto ci è riuscito in pieno.
Interpreti: Johan Botha, Michaela Schuster
Regia: Michael Schulz
Orchestra: Sächsische Staatskapelle Dresden
Direttore: Christian Thielemann
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