Arte e abuso del crescendo
Turin Brakes e The Field a Spaziale
Recensione
pop
Che un certo pop new-acustic abusasse del crescendo ne abbiamo sempre avuto l’impressione: come se la cifra emotiva di un brano si fondasse sulla triangolazione fra l’orecchiabilità del motivetto – lo hook – il tasso emotivo della progressione armonica (gli u2 insegnano) e la capacità di aggredire emotivamente lo stomaco dell’ascoltatore con il climax di intensità. I Turin Brakes, attesi allo Spazio 211 per il sabato di Spaziale 2010 (dopo l’intrigante psichedelica alla newyorkese di A Place to Bury Stranger) sono l’emblema della maniera presa dalla musica “acustica” emersa in Inghilterra nel decennio post brit pop. Due chitarre, armonie vocali sforzate (i Kings of Convenience, ma con più pathos, senza stare a scomodare Simon & Garfunkel), un basso stereotipato a completare l’armonia e una batteria a cercare di alzare il tiro. Insomma, poche idee ma molto chiare: fin troppo. Un crescendo dopo l’altro, ci si autorizza ad ignorare questa musica emo-acustica, che – per giunta – dal vivo mostra la corda della tecnica, non più rivestita dalla produzione accurata.
Il crescendo è anche freccia avvelenata della retorica dance: The Field, in chiusura di serata, ne fa tesoro. Una dance, quella del musicista svedese, che odora di indie in maniera entusiasmante. Sarà perché è suonata anche da un basso e – soprattutto - da una batteria poderosa, che conferisce (sul modello dei Battles, e il batterista è lo stesso: John Stainer) umanità rock al minimalismo, quasi un’edizione clubbin’ del miglior kraut. Proprio la batteria, che non risparmia controtempi e sezioni di primo piano, è l’elemento capace di richiamare l’attenzione, stagliandosi sullo sfondo di elettronica minimale e pastiche house, rapidi campioni di voci, loop e delay, ribaltando il rapporto sfondo-figura e guidando i crescendo – finalmente, sì - esaltanti.
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