L'andaluso di Cuba

Il cantante flamenco Diego El Cigala tra jazz e salsa

Foto di Musacchio & Ianniello
Foto di Musacchio & Ianniello
Recensione
world
Auditorium Parco della Musica
12 Settembre 2009
I signori della fila dietro ne parlano, mentre la sala si va riempiendo. “Sembra che le donne siano molto disponibili con lui”, argomenta l’uomo, con l’aria di chi la sa lunga. “E chi non lo sarebbe?”, risponde serafica la signora. Perché Diego El Cigala è anche questo. È distillato di sudore latino, pomata su lunghi capelli corvini, afrore di maschio mediterraneo che anche se solo ipotizzato trasuda dai suoi dischi, arriva fino all’ultima fila, laggiù in platea. Poi è anche voce disperata e piangente, sussulto e dolore, essenza di flamenco. Anche se di Andalusia c’era poco, sabato sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma, per il Festival del Flamenco. A riversarsi dal palco sugli ascoltatori in adorazione era un concentrato di jazz e odore di sigari cubani, salsa e atmosfere Buena Vista Social Club. In osservanza con il nuovo lavoro del Cigala, “Dos Lagrimas”, sequel ideale di “Lagrimas negras” album progettato su e realizzato con l’anima made in Havana del piano di Bebo Valdès. Del cante jondo restava la sua voce che graffia, la presenza imponente, metà Rasputin in salsa gitana, metà Re dei topi che si adora sdraiato sotto il ponte di deandreiana memoria. “Si te contara”, “Bravo”, “Historia de un amor”, seguono l’ouverture jazz, trionfo di virtuosismo: bravi i musicisti, ma il volume troppo alto non cancella la distanza. Il risultato è freddino, i pezzi monolitici, le dinamiche appena percettibili, ma il pubblico gradisce. La terra di Spagna si fa intravedere grazie a “La Paloma” e alla chiamata in causa di Rafael Alberti, ma è un attimo. I ritmi sincopato-caraibici di “Dos Gardenias” e “La Bien Pagà” chiudono la serata. Così qualcuno le radici andaluse continua a cercarle. “Mamma, però “Bamboleo” non l’ha fatta”, commenta delusa la bimba uscendo dalla sala.

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