Saalfelden, il mondo in un festival
Il festival austriaco rimane una finestra spalancata sul jazz di oggi: il meglio del 2017
Saalfelden, il mondo in un festival. Ogni anno, da trentotto anni. Un rito, una costante, un passaggio obbligato. Una finestra spalancata sul jazz di oggi e di domani. Per capire e tentare di leggere gli orientamenti e le tendenze della musica che fu di Charlie Parker e di Miles Davis. In un contesto che migliore non si potrebbe: sia dal punto di vista della qualità delle proposte e della profondità di sguardo, sia da quello più strettamente organizzativo e logistico. I numeri di Saalfelden? Quattro giorni, una quarantina di concerti e una decina di location. Nel rispetto di una formula ormai consolidata: live gratuiti dal taglio più festaiolo nel cuore della cittadina, un paio di uscite in alta quota, il grosso degli eventi negli spazi del gigantesco centro congressi, l'apertura ufficiale il giovedì e le esibizioni mattutine del venerdì e del sabato nell'auditorium del Nexus.
Formula consolidata e premiata anche quest'anno da un travolgente tutto esaurito. Pubblico numeroso, eterogeneo (più del solito i giovani e persino i giovanissimi). Rispettoso e attento nel seguire il filo di una programmazione che ha riservato spunti notevoli, colpi a sorpresa e fantastiche conferme. Incentrata forse un po' troppo sull'Europa (un pizzico in più di “blackness”, in tutti i sensi, non avrebbe fatto male), ma comunque varia e stuzzicante. D'altronde coerenza, lucidità e coraggio, merce sempre più rara al di sotto delle Alpi (la lagna comincia e finisce qui, giuro), sono di casa in quel di Saalfelden. Dove il jazz, per fortuna, è ancora una cosa seria.
La folgorazione
Un colpo di fulmine, un amore bruciante e istantaneo per la pianista Eve Risser e per la sua White Desert Orchestra. Concerto tra i più attesi considerando il promettente debutto su Clean Feed dell'anno scorso, ma che è riuscito ad andare ben oltre le pur notevoli aspettative. Da brividi gli attacchi sognanti, i passaggi più tortuosi e dinoccolati (a un certo punto si è finiti dalle parti di Frank Zappa), i momenti di incantata astrazione, i maestosi crescendo. Al servizio di partiture immaginifiche ed eleganti, affidate a una serie di strepitosi musicisti: Julien Desprez alla chitarra elettrica, Sara Shoenbeck al fagotto (suo il primo assolo), Yuko Oshima alla batteria, Luc Ex al basso acustico e Sylvaine Helary al flauto e all'ottavino i meritevoli di menzione. In un set di un'ora scarsa che ha saputo emozionare per il calore, la commuovente intensità, la precisione, la resa palpitante delle molteplici sfumature e degli infiniti dettagli. Musica vera, umana quella della Risser, che da un lato guarda a Gil Evans e a Maria Schneider (evidenti le assonanze timbriche con la signora del jazz), e dall'altro si riallaccia con estrema leggerezza al Novecento europeo (Ravel, Poulenc e prestigiosa compagnia). Superbe!
Il gigante
Steve Lehman. Atteso alla prova del palco dopo un disco pesantissimo come Sélébéyone. Prova superata con qualche piccola riserva. Macchinoso l'inizio, sbrigativo il finale, dispersivi alcuni brevi passaggi affidati al solo Gaston Bandimic, il rapper senegalese scelto per affiancare il producer Hprizm nel progetto hip hop del sassofonista newyorchese. Colpa (anche) dei tempi risibili concessi per il soundcheck a una band dalle mille anime e dell'incalzante concitazione da mega festival. Peccati veniali in ogni caso. Al cospetto di un set che ha confermato l'efficacia e la potenza della visione di Lehman. “Are You in Peace?”, “Laamb”, “Origine”, “Bamba”: uno schiaffo dopo l'altro. Senza pause, senza pietà. Con la batteria di Damion Reid a macinare ritmi sghembi e metriche impossibili e il basso elettrico di Matt Brewer puntato dritto allo stomaco. Notevoli un paio di escursioni in solitaria dello stesso Lehman, ipnotico e tagliente come non mai; esplosive le entrate a gamba tesa di Bandimic, l'elemento deflagrante in un gruppo che a pieno regime è in grado di sviluppare un'onda d'urto pazzesca. Livelli altissimi.
Le conferme
La prima dall'Australia. Chris Abrams, Lloyd Swanton e Tony Buck. Ovvero, The Necks. Applauditi a lungo e calorosamente al termine di una diafana e fluttuante meditazione per pianoforte, contrabbasso e batteria. Fatta di piccole variazioni, impercettibili scivolamenti, ostinate reiterazioni; magicamente in bilico tra i palesi rimandi al minimalismo (Terry Riley, La Monte Young) e l'afflato astrattamente improvvisativo, le allucinate derive ambient e una mal celata propensione alla dolcezza. Un inquieto mare nel quale annegare beatamente, lasciandosi inghiottire dagli abissi di una musica tanto semplice all'apparenza quanto in realtà perfettamente consapevole e rigorosa. Meravigliosi.
Dall'Australia alla Scandinavia per la seconda delle tre conferme: il Nu Ensemble di Mats Gustafsson. Che per l'occasione ha presentato la suite intitolata Heal, ottavo capitolo della serie Hidros. Agli ordini del sassofonista svedese una band di dieci elementi agguerrita e massiccia: Susanna Santos Silva alla tromba, Anna Högberg al sax contralto, il fido Per Åke Homlander alla tuba, Massimo Pupillo al basso elettrico, la doppia batteria e le percussioni affidate a Ivar Loe Bjørnstad e a Gert Jan Prins, l'alchimista Dieb13 ai giradischi, Christof Kurzmann all'elettronica e Martin Siewert alla chitarra. Enigmatico l'incipit, con un turbine di gong a evocare i signori della guerra e i cavalieri dell'apocalisse sonora. Poi un'improvvisa impennata, trascinata da un pedale oscuro e da uno sbilenco assolo di tromba. Preludio a un secondo assalto guidato dal basso di Pupillo e scandito da un riff funereo, con la chitarra di Siewert a sfrigolare in sottofondo. Quindi la voce di Kurzmann: fragile, inquieta, delirante; e infine sopraffatta dall'orda di un ultimo e conclusivo crescendo destinato a esplodere in mille schegge di rumore. Totale.
Ancora scandinava per la terza conferma: Martin Küchen e i suoi Angles. Una garanzia nel distillare il consueto mix di atmosfere mingusiane, colori africani (Chris McGregor lo spirito guida) e cadenze balcaniche. Musiche da vivere e da danzare, che entrano sotto pelle e arrivano come scariche di adrenalina al cervello. Grazie a una line-up composta da cinque fiati (due trombe, due sax e un trombone) e a una sezione ritmica in versione extra large (il vibrafono oltre al pianoforte), nella quale giganteggiano il batterista Andreas Werliin e il contrabbassista Johan Berthling (a dir poco fantastico un suo assolo in punta d'archetto giocato tutto sugli armonici). Gli anni passano, l'effetto sorpresa è ormai svanito, ma la formula degli Angles funziona sempre alla grandissima.
Giovani e non
Giovani scandinavi (tanto per cambiare). Ottimo, davvero, il quartetto Cortex, con Paal Nilssen-Love a rimpiazzare Gard Nilssen dietro a piatti e tamburi, Thomas Johansson alla tromba, Kristoffer Berre-Alberts al sax contralto e al sax tenore (prendere nota: talento purissimo) e Ola Høyer al contrabbasso. Ornette la stella polare, lucente e solitaria all'orizzonte, con temi scattanti e assoli infuocati snocciolati con bellicoso e sfacciato compiacimento. Un gran bel sentire. Decisamente più rock, da qualche parte tra i Blue Cheer, i Last Exit e i Motorpsycho, l'approccio instabile e stordente del quartetto del sassofonista Kjetil Møster. Sventagliate di chitarra e mitragliate di batteria a bucare i timpani, psichedelia distopica e colate di noise, anche se una pessima resa audio ha in parte penalizzato il set. Buone nuove anche sul fronte Amok Amor, laboratorio-collettivo in forma di quartetto con Christian Lillinger alla batteria, Petter Eldh al contrabbasso, Wanja Slavin al sax contralto (altro notevole talento) e Samuel Blaser al trombone (a rimpiazzare il titolare Peter Evans). Pregevole il gioco di incastri, funambolici gli assoli, lodevole il contributo di Blaser. Unica pecca la smania ipercinetica di Lillinger, che risulta sempre un po' stucchevole. Infine il solo di Briggan Krauss, una severa e scorbutica riflessione sulle possibilità e sui limiti del sax contralto. Affascinante, ma tutt'altro che amichevole.
La sorpresa
Il trio del pianista Brian Marsella, uscito allo scoperto di recente grazie al fiuto di John Zorn. Che affidandogli uno dei tanti capitoli della serie Book of Angels, il numero trentuno, ha acceso i riflettori su un improvvisatore solido e fantasioso, dotato di una tecnica impeccabile e di un gusto raffinato. Accompagnato da una sezione ritmica di primissimo rango, Trevor Dunn al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria, Marsella si è buttato a capofitto in una serie di impeccabili interpretazioni dei brani scritti per lui dal signor Tzadik e come al solito dedicati ad angeli e demoni del pantheon ebraico. Classicamente moderno il taglio dell'esibizione, un distillato di purissimo jazz condito da una massiccia dose di swing e sorretto da una classe superiore. Oscar Peterson e Ray Bryant avrebbero gradito.
Alieni e maestri
Gli alieni sono sbarcati in Austria dal Giappone. Il veterano Tatsuya Yoshida (batteria) e la funambola Ryoko Ono (sax contralto), titolari del progetto Sax Ruins. Duo ad altissimo coefficiente di spettacolarità al confine tra prog, free e jazz rock. Meravigliosamente insostenibile nell'eccedere praticamente in tutto: velocità, virtuosismo, tortuosità delle composizioni, volume, saturazione degli spazi, effetti e distorsioni. Un salutare fuori programma. Sorprendente, per tutt'altra ragione, anche l'esito dell'incontro tra Mark Feldman (violino), Sylvie Courvoisier (pianoforte), Evan Parker (sax soprano) e Ikue Mori (elettronica). Sorprendente in positivo. Il rischio, come spesso accade in questi casi, era quello di una stanca e prevedibile sequenza di pieni e vuoti, intervallata dallo spazio per gli immancabili assoli. I quattro hanno saputo invece lavorare insieme sul suono e sulle dinamiche, tracciando un percorso coinvolgente e avventuroso. Applausi. A loro e al festival.
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