Festival au Désert, la musica e le persone

Racconto dal festival fiorentino, con Almar’à: la prima orchestra di donne arabe

Festival au Desert
Recensione
world
Piazza Ognissanti, Firenze
Festival au Désert
11 Luglio 2017 - 26 Ottobre 2017

Qualche anno fa mi sono trovato a un convegno sulla musica degli zingari. Niente di illuminante, ma il titolo riassumeva crudamente il problema centrale: era qualcosa del tipo “Zingari. La musica sì, le persone no”.

Oggi chi si occupa a qualche titolo di musiche del mondo – giornalisti, organizzatori di cultura, amministrazioni – e magari, più nello specifico, di musiche “del Mediterraneo” (un vero genere a sé stante) ha di fronte costantemente questa contraddizione: sostituite “zingari” con “migranti”, o “arabi”, o “africani” e capirete cosa intendo. Forse il paradosso più crudele della world music che ascoltiamo attraverso i canali istituzionali dell’industria musicale occidentale è il suo completo scollamento da quanto avviene nel mondo che racconta, o dovrebbe raccontare.

Ci troviamo con repertori che celebrano la diversità, con il mito del Mediterraneo, dell’incontro di culture, con il «percussionista ghanese che è stato ricollocato in un complesso pugliese» (per dirla alla Elio), magari anche con deprimenti canzoni che celebrano – con più o meno buon gusto – il dramma dei migranti, ma il legame che tutto questo ha (o dovrebbe avere) con ius soli, problemi quotidiani di integrazione, dibattiti velo/non velo, Ventimiglia e il Brennero rimane al minimo decisamente in secondo piano, per non dire assente. E il tema – mi perdonerete la semplificazione eccessiva, che non vuole essere populista – non riguarda tanto i musicisti, quanto le politiche culturali (per cui “contaminazione è bello”) opposte alle politiche sociali (per cui “aiutiamoli a casa loro”).

Anche di questo si è parlato nei primi due giorni del Festival au Désert di Firenze, il progetto di Fabbrica Europa ormai all’ottava edizione, che quest’anno si è spostato in quel bel salotto del centro di Firenze che è Piazza Ognissanti. Se ne è parlato con Anna Paola Concia (assessora alla Cooperazione e Relazioni internazionali del Comune di Firenze), Isabelle Mallez (direttrice dell’Institut Français) e Sanaa Ahmed (responsabile culturale della Moschea di Firenze): tre donne, un eccellente preludio alla presentazione la sera stessa del progetto Almar’à, vincitore del bando MigrArti del Ministero: il vero fiore all’occhiello di Festival au Désert 2017, ancor più di Hindi Zahra (bello il suo set con la chitarra di Riccardo Onori), Terakaft con Justin Adams e altri nomi più noti del circuito inclusi in cartellone.

 

Un post condiviso da Jacopo Tomatis (@jacotomatis) in data: 17 Lug 2017 alle ore 07:40 PDT

Almar’à è un’orchestra di musiciste arabe, provenienti da tutta Italia, professioniste o semiprofessioniste, coordinate da Ziad Trabelsi (oudista dell’Orchestra di Piazza Vittorio: durante il concerto in piazza si aggira tesissimo intorno al palco). Alla fine, emozione della prima a parte, sarà un successo: repertorio vario e panarabico, e chiusura “Ya Rayah”, di Dahmane El Harrachi (divenuta un successo nella versione di Rachid Taha). La gioia con cui uno struggente classico delle canzoni d’esilio riesce a riempiere la piazza e far ballare la gente è il coronamento perfetto di un progetto bello e intelligente, che mette in primo piano – veramente – l’indissolubile legame fra le persone e la musica che le rappresenta. Problemi e contraddizioni comprese.

 

Un post condiviso da Jacopo Tomatis (@jacotomatis) in data: 17 Lug 2017 alle ore 07:40 PDT

Il Festival au Désert non è stato, naturalmente, solo questo (premetto che sono riuscito a seguire solo i primi due giorni, mancando il gran finale con la jam session della “Caravane pour la Paix”, una delle cifre ricorrenti del Festival au Désert).

l’11 luglio Carlo Maver – flautista e bandoneonista – ha raccontato del suo Azalai. 1500 km a piedi nel deserto, breve e intenso libro che ha da poco pubblicato, riallacciando il filo del racconto con un viaggio compiuto ormai quasi vent’anni fa, da Toumboctou alle miniere di sale di Taoudenni, aggregato in solitaria a una carovana. Luca Morino ha raccontato – insieme al sottoscritto – il Festival des Nomades di M’Hamid El Ghizlane (ne abbiamo parlato QUI), e ha proposto un breve set da solo, chitarra e voce.

L’11 è toccato al complesso di Francesco Loccisano (con Antonio Petitto al contrabbasso, Tonino Palamara alle percussioni e Federica Santoro alla lira calabrese): Loccisano, calabrese, è un grande innovatore della chitarra battente, che – fra innovazioni tecnologiche sullo strumento e di tecnica chitarristica – sta portando verso nuovi mondi e nuove possibilità espressive. Bel set, bellissime idee musicali, solo – a tratti – qualche concessione di troppo a un gusto fusion un po’ datato. Memorabile anche il concerto dei cretesi Giorgos Manolakis e Zacharias Spyridakis, al lauto e alla lira, ancora con l’ospitata di Federica Santoro, a immaginare nuovi possibili sviluppi e a evidenziare elementi comuni e differenze.

Questo filone della “liuteria”, per così dire, era già stato inaugurato negli anni scorsi dal progetto Liu’ud, incontro fra lo oud e il liuto rinascimentale: il ragionamento musicale sugli strumenti come luogo di incontro fra cultura materiale e immateriale, fra oggetti sonori e persone che li suonano, fra tecnologia e stile, è un eccellente modo per andare oltre la semplice idea di “musica del Mediterraneo”, per trasformarla da etichetta vuota a qualcosa di reale.

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