Le tristezze del jazz italiano
Appunti sparsi per una riflessione sul jazz italiano, fra edicole e festival
Recensione
jazz
Appunti sparsi per un’ipotesi di riflessione. Dubbi e interrogativi che da qualche giorno scalciano nella mia testa e che sento il dovere di condividere. Nella speranza di un confronto a più voci e, soprattutto, di un’ulteriore messa a fuoco. Non che non abbia le mie (precise) idee al riguardo, ma gli stimoli ricevuti su più fronti mi hanno spinto a ripartire da zero, a fare tabula rasa per provare ad abbracciare tutti (o quasi) i punti di vista.
Che, nel caso della nuova collana “Jazz Italiano Live”, portata in edicola da Repubblica e L’Espresso, sono davvero tanti. Una miriade di spigolature, ragionamenti, sfoghi (a volte scomposti), precisazioni e analisi che danno forma al solito mosaico di antagonismi e frizioni, al quale non ho nessuna intenzione di aggiungere ulteriori tasselli: divertitevi voi con il giochino del “chi c’è, chi non c’è”. I soliti noti? Il trionfo della “cricca romana”? Forse. Anzi, sicuramente. Confrontando i dischi in uscita con quelli pubblicati in passato – non è la prima volta che il gruppo L’Espresso porta il jazz italiano in edicola a partire dal 2006 – è difficile non notare l’ostinata presenza dei vari Fresu, Bollani, Gatto, Marcotulli, Pieranunzi, Damiani, Rava; i big (o presunti tali), quelli che occupano militarmente la maggior parte dei cartelloni dei festival di casa nostra. Normale, prevedibile. In una logica commerciale – perché di logica commerciale si tratta, perché la gente va convinta a sborsare nove euro e novanta – i jazzisti che funzionano agli occhi dell’editore sono quelli.
Ovviamente non condivido gran parte delle scelte – giù la maschera onde evitare qualsiasi accusa di ipocrisia – ma ciò non toglie che l’operazione abbia una propria coerenza, una propria logica. E che a quanto pare funzioni, visto che ciclicamente si ripete (sarebbe interessante a tal proposito analizzare i dati delle vendite per farsi un’idea precisa dei numeri e delle proporzioni).
Tutti a casa e disamina finita? Manco per idea. Qualcosa comunque non torna. Qualcosa infastidisce, rattrista. Dettagli, sfumature, inevitabili considerazioni che complicano il quadro. Chiamando in causa gli equilibri precari e gli spazi ristretti con i quali il jazz italiano ha a che fare quotidianamente, l’immagine che un mondo piccolo e marginale offre a un pubblico generalista, gli effetti distorsivi sulla percezione di assessori e amministratori (gli stessi che poi decidono se aprire o chiudere i cordoni della borsa), la stratificazione delle approssimazioni e delle mezze verità, dei sensazionalismi e dei luoghi comuni (“il musicista che tutto il mondo ci invidia!” e sbruffonate simili degne del peggiore “arborismo”). Aspetti secondari fino a un certo punto, inestricabilmente connessi a responsabilità culturali che si può anche fingere di non avere, che è persino legittimo ignorare, ma che in qualche modo pesano, che se ne stanno in un angolo della stanza come un elefante bianco che troppi fingono di non vedere. Convenienza? Pigrizia? Inettitudine? Difficile dirlo. Ma la sensazione – forte, persistente – è che al netto delle logiche editoriali l’operazione difetti di delicatezza, di tatto nei confronti di un ecosistema parecchio delicato, di senso della misura.
Esagero? Sbaglio? Non lo escludo. Ho ammesso fin dall’inizio di sentire forte la necessità di un’ulteriore messa a fuoco. E forse ha ragione da vendere chi mi fa notare che L’Espresso e Repubblica giocano in un altro campionato, che le ricadute effettive sul pianeta jazz, quello reale, quello del fare (al quale appartengono anche promoter e musicisti coinvolti nell’iniziativa) in fondo sono minime. Perché c’è troppa distanza, troppa differenza di cabotaggio: un altro pubblico, un’altra dimensione.
Può essere. Anche in queste osservazioni c’è del vero, lo ammetto. Così come c’è del vero nelle parole di chi rivendica la conquista di spazi preziosi, di una ribalta nazionale, ponendo l’accento sulla fatica e l’impegno necessari per arrivare nelle edicole con il marchio di un gigante dell’editoria stampigliato sulla copertina. “Un’occasione di visibilità enorme”, “una vetrina per tutto il movimento”, “persino i musicisti che non ci sono dovrebbero ringraziarci” (sì, mi è stato detto anche questo).
Posizioni comprensibili, discorsi belli tondi e ragionevoli. Che è giusto esplicitare nel rispetto delle buone intenzioni altrui; e che è giusto rimarcare a fronte del livore e delle gelosie meschine dei troppi cani sciolti, di chi in scala ridotta non si vergogna di reiterare le politiche di accattonaggio e le pratiche feudali dalle quali si dice schifato. Baronetti, signorotti, ras delle miriadi di quartierini nati intorno ad associazioni culturali e localucci: di miseria ce n’è parecchia in giro, nessuno lo nega. “Cosa fanno concretamente i tanti che si lamentano, che ringhiano su Facebook, per il jazz italiano?”. Avessi preso cinque euro per ogni volta che mi è stata fatta questa domanda nelle ultime due o tre settimane di discussioni (anche accese), avrei messo da parte un discreto gruzzoletto. Da spendere ovviamente in dischi di free, noise giapponese e improvvisazione radicale. Scherzi a parte, il problema è che seguendo il filo logico di obiezioni simili si finisce per incartarsi, per arrivare al punto in cui meriti e colpe si annullano, in cui tutto va bene purché si faccia qualcosa, in cui il minimo sindacale basta per arrogarsi il diritto di appuntarsi l’ennesima medaglietta lucente sul petto.
È questo il jazz italiano? Una palude stagnante della quale non si riesce più nemmeno a increspare la superficie? E i contesti, il coraggio, la professionalità non contano più? Non molto, a quanto pare. O almeno non a certi livelli, quando di mezzo ci sono media che si muovono in circuiti numericamente, ed economicamente, rilevanti. Come i quotidiani nazionali, dai quali il jazz è praticamente sparito (salvo ricomparire di tanto in tanto sotto forma di vezzo paraculo o ammiccamento civettuolo, condito da strafalcioni e topiche imbarazzanti).
E allora siamo punto e a capo, alla tristezza e al disagio di cui sopra. Che aumentano di fronte all’abuso di omaggi sperticati che accompagna la pubblicazione dei diciotto volumi della collana. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Pino Daniele, David Bowie, i Nirvana (tema affidato ai giovani talenti, perché i giovani devono suonare il rock e i Nirvana), la musica classica, la canzone leggera italiana: anche stavolta non manca davvero nessuno. E non si tratta di purismo, badate bene (ricordo anni fa un meraviglioso omaggio del chitarrista francese Noël Akchoté a Kylie Minogue). Il problema caso mai è un altro. Culturale, di nuovo. Puntelli e rinforzini di mascettiana memoria applicati a mo’ di braccioli nella convinzione che il jazz da solo, in mare aperto, non saprebbe stare a galla. Beh, se tutto questo non vi mette almeno un po’ di tristezza, se non vi sentite un minimo a disagio, forse il jazz italiano e la sua salute non vi stanno poi così a cuore.
Che, nel caso della nuova collana “Jazz Italiano Live”, portata in edicola da Repubblica e L’Espresso, sono davvero tanti. Una miriade di spigolature, ragionamenti, sfoghi (a volte scomposti), precisazioni e analisi che danno forma al solito mosaico di antagonismi e frizioni, al quale non ho nessuna intenzione di aggiungere ulteriori tasselli: divertitevi voi con il giochino del “chi c’è, chi non c’è”. I soliti noti? Il trionfo della “cricca romana”? Forse. Anzi, sicuramente. Confrontando i dischi in uscita con quelli pubblicati in passato – non è la prima volta che il gruppo L’Espresso porta il jazz italiano in edicola a partire dal 2006 – è difficile non notare l’ostinata presenza dei vari Fresu, Bollani, Gatto, Marcotulli, Pieranunzi, Damiani, Rava; i big (o presunti tali), quelli che occupano militarmente la maggior parte dei cartelloni dei festival di casa nostra. Normale, prevedibile. In una logica commerciale – perché di logica commerciale si tratta, perché la gente va convinta a sborsare nove euro e novanta – i jazzisti che funzionano agli occhi dell’editore sono quelli.
Ovviamente non condivido gran parte delle scelte – giù la maschera onde evitare qualsiasi accusa di ipocrisia – ma ciò non toglie che l’operazione abbia una propria coerenza, una propria logica. E che a quanto pare funzioni, visto che ciclicamente si ripete (sarebbe interessante a tal proposito analizzare i dati delle vendite per farsi un’idea precisa dei numeri e delle proporzioni).
Tutti a casa e disamina finita? Manco per idea. Qualcosa comunque non torna. Qualcosa infastidisce, rattrista. Dettagli, sfumature, inevitabili considerazioni che complicano il quadro. Chiamando in causa gli equilibri precari e gli spazi ristretti con i quali il jazz italiano ha a che fare quotidianamente, l’immagine che un mondo piccolo e marginale offre a un pubblico generalista, gli effetti distorsivi sulla percezione di assessori e amministratori (gli stessi che poi decidono se aprire o chiudere i cordoni della borsa), la stratificazione delle approssimazioni e delle mezze verità, dei sensazionalismi e dei luoghi comuni (“il musicista che tutto il mondo ci invidia!” e sbruffonate simili degne del peggiore “arborismo”). Aspetti secondari fino a un certo punto, inestricabilmente connessi a responsabilità culturali che si può anche fingere di non avere, che è persino legittimo ignorare, ma che in qualche modo pesano, che se ne stanno in un angolo della stanza come un elefante bianco che troppi fingono di non vedere. Convenienza? Pigrizia? Inettitudine? Difficile dirlo. Ma la sensazione – forte, persistente – è che al netto delle logiche editoriali l’operazione difetti di delicatezza, di tatto nei confronti di un ecosistema parecchio delicato, di senso della misura.
Esagero? Sbaglio? Non lo escludo. Ho ammesso fin dall’inizio di sentire forte la necessità di un’ulteriore messa a fuoco. E forse ha ragione da vendere chi mi fa notare che L’Espresso e Repubblica giocano in un altro campionato, che le ricadute effettive sul pianeta jazz, quello reale, quello del fare (al quale appartengono anche promoter e musicisti coinvolti nell’iniziativa) in fondo sono minime. Perché c’è troppa distanza, troppa differenza di cabotaggio: un altro pubblico, un’altra dimensione.
Può essere. Anche in queste osservazioni c’è del vero, lo ammetto. Così come c’è del vero nelle parole di chi rivendica la conquista di spazi preziosi, di una ribalta nazionale, ponendo l’accento sulla fatica e l’impegno necessari per arrivare nelle edicole con il marchio di un gigante dell’editoria stampigliato sulla copertina. “Un’occasione di visibilità enorme”, “una vetrina per tutto il movimento”, “persino i musicisti che non ci sono dovrebbero ringraziarci” (sì, mi è stato detto anche questo).
Posizioni comprensibili, discorsi belli tondi e ragionevoli. Che è giusto esplicitare nel rispetto delle buone intenzioni altrui; e che è giusto rimarcare a fronte del livore e delle gelosie meschine dei troppi cani sciolti, di chi in scala ridotta non si vergogna di reiterare le politiche di accattonaggio e le pratiche feudali dalle quali si dice schifato. Baronetti, signorotti, ras delle miriadi di quartierini nati intorno ad associazioni culturali e localucci: di miseria ce n’è parecchia in giro, nessuno lo nega. “Cosa fanno concretamente i tanti che si lamentano, che ringhiano su Facebook, per il jazz italiano?”. Avessi preso cinque euro per ogni volta che mi è stata fatta questa domanda nelle ultime due o tre settimane di discussioni (anche accese), avrei messo da parte un discreto gruzzoletto. Da spendere ovviamente in dischi di free, noise giapponese e improvvisazione radicale. Scherzi a parte, il problema è che seguendo il filo logico di obiezioni simili si finisce per incartarsi, per arrivare al punto in cui meriti e colpe si annullano, in cui tutto va bene purché si faccia qualcosa, in cui il minimo sindacale basta per arrogarsi il diritto di appuntarsi l’ennesima medaglietta lucente sul petto.
È questo il jazz italiano? Una palude stagnante della quale non si riesce più nemmeno a increspare la superficie? E i contesti, il coraggio, la professionalità non contano più? Non molto, a quanto pare. O almeno non a certi livelli, quando di mezzo ci sono media che si muovono in circuiti numericamente, ed economicamente, rilevanti. Come i quotidiani nazionali, dai quali il jazz è praticamente sparito (salvo ricomparire di tanto in tanto sotto forma di vezzo paraculo o ammiccamento civettuolo, condito da strafalcioni e topiche imbarazzanti).
E allora siamo punto e a capo, alla tristezza e al disagio di cui sopra. Che aumentano di fronte all’abuso di omaggi sperticati che accompagna la pubblicazione dei diciotto volumi della collana. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Pino Daniele, David Bowie, i Nirvana (tema affidato ai giovani talenti, perché i giovani devono suonare il rock e i Nirvana), la musica classica, la canzone leggera italiana: anche stavolta non manca davvero nessuno. E non si tratta di purismo, badate bene (ricordo anni fa un meraviglioso omaggio del chitarrista francese Noël Akchoté a Kylie Minogue). Il problema caso mai è un altro. Culturale, di nuovo. Puntelli e rinforzini di mascettiana memoria applicati a mo’ di braccioli nella convinzione che il jazz da solo, in mare aperto, non saprebbe stare a galla. Beh, se tutto questo non vi mette almeno un po’ di tristezza, se non vi sentite un minimo a disagio, forse il jazz italiano e la sua salute non vi stanno poi così a cuore.
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