Fiori fuori stagione
Dischi in riascolto: Michele Mezzala Bitossi e Marco Iacampo
Recensione
pop
Devo recitare un mea culpa (chi non è interessato, può scorrere fino a leggere dei dischi promessi nell’occhiello -->). Ricevo un sacco di dischi, fisici o via mail. Davvero tanti, di tutti i generi. Non li ascolto tutti, ma non per snobismo o cattiveria: per una fisiologica carenza di tempo unita a caos organizzativo. Mi perdo i pezzi, sono disordinato. A volte un disco cade dietro la scrivania e lo ritrovo dopo mesi.
Per di più, non sono capace a buttare giù due righe sul comunicato stampa, con qualche parola di circostanza. A volte è davvero difficile scrivere qualcosa di intelligente, anche su dei dischi che ti sono piaciuti, che hai fatto girare tante volte, e di solito è meglio tacere piuttosto che dire banalità. Una “recensione”, una vera recensione, esige tempo e riflessione. E poi ammettiamolo: come io non ho tempo a farla, voi non avete tempo per leggerla. Così, mi riduco a recensire poche cose, quei dischi su cui mi viene subito un’idea forte. O quei dischi che semplicemente non puoi non recensire.
Così facendo però rimangono da parte dischi che mi sono piaciuti, di musicisti che stimo e che meriterebbero almeno un cenno del fatto che ho amato i loro dischi, dato che si sono impegnati a farmeli avere (poi magari non gliene frega niente, ma comunque).
Dunque, essendo negato per i listoni di fine anno, o per decidere quali sono i “migliori dischi” (mica ho ascoltato tutto), mi ri-prometto di ri-proporre ri-ascolti di dischi usciti qualche mese fa, senza l’ansia dell’uscire “a caldo”, e con il tempo tecnico per capire se un disco merita, se è in grado di sopravvivere – nel mio iTunes e magari nella canzone italiana – più del tempo di una promozione ben fatta.
Dunque, il mio personale senso della giustizia oggi ripesca due dischi usciti a ottobre 2015. Due dischi che se vi siete persi, e che se vi interessa quello che succede nella musica italiana (e magari diffidate dello hype del momento dell’universo indie) dovete proprio ascoltare.
<-- Fine dell’introduzione, inizio della parte interessante.
A volte, quando mi chiedono pareri su qualcosa che ho ascoltato, ho il terrore di parlare come quel personaggio (un discografico?) che, nell’ultimo disco di Mezzala, ha la voce di Zibba, e che recita, in “Chissà”:
“Caro Mezzala hai del talento, scrivi in modo originale e profondo, il tuo è un pop intelligente, mi ricorda molto il mondo di quei cantautori romani: fai piacevoli canzoni ma non basta, si tratta purtroppo di musica molto difficile da collocare…”
Irrequieto (The Prisoner Records) è il secondo disco di Michele “Mezzala” Bitossi, che segue a distanza di quattro anni il notevole Il problema di girarsi (che mi piace ricordare per il titolo, uno dei più belli letti in tempi recenti).
L’ironia – e l’autoironia, soprattutto – è uno degli elementi che contribuisce a fare di Irrequieto uno dei dischi italiani più freschi del 2015: il richiamo a “quei cantautori romani” è evidente, e esplicitato anche nelle intenzioni. “Mezzala” cita, in effetti, Ivan Graziani, Eugenio Finardi, Alberto Fortis, Lucio Dalla e Lucio Battisti fra i modelli ideali.
Il disco, però, ha anche il pregio di suonare lontano dalle produzioni italiane solite. Il lavoro con Tristan Martinelli e Ivan Antonio Rossi (quest’ultimo produttore), e con un gruppo di musicisti di ottimo livello (fra cui spiccano alcuni nomi noti per chi segue il miglior jazz italiano: Danilo Gallo al basso, Simone Massaron alla chitarra elettrica, Dimitri Grechi Espinoza al sax contralto, Beppe Scardino al baritono, oltre a una sezione archi) garantisce un suono molto lontano dallo standard dell’indie nostrano. Tutto è molto a fuoco, la voce è trattata bene (spesso raddoppiata) e mai nascosta nel mix. Allo stesso tempo, anche il fantasma della canzone d’autore – con quelle voci “in faccia”, la verbosità di certi testi, certe chitarre elettriche, il basso e la batteria sempre insieme... – è per fortuna molto lontano. Mezzala, genovese, suona insomma molto poco genovese. Irrequieto fila via fra bei suoni americani di chitarra e batteria (ascoltate “Le tue paure”), molti fiati, molta leggerezza, giochi sugli accenti delle parole (“Chissà”) e alcune melodie di grande presa (“Constatazione amichevole”). Il rapporto con il mondo della musica indie, con il mestiere di chi fa musica oggi e di chi la deve (o la dovrebbe) ascoltare, è al centro del testo di alcuni episodi (“La classifica”, e la già citata “Chissà”), con azzeccatissimo spirito del tempo.
Il secondo disco "ripescato" è il terzo lavoro del mestrino Marco Iacampo (o meglio: il terzo a suo nome, dopo lavori in collettivo e dopo l’importante esperienza come Goodmorningboy).
Prodotto e suonato con Leziero Rescigno (Amor Fou, collaboratore di Mauro Ermanno Giovanardi e di molti altri), Flores è un disco di canzone d’autore come dovrebbe essere un disco di canzone d’autore oggi. C’è tutto quello che serve: chitarre che suonano benissimo (un grande problema dell’indie italico sembra essere quello di registrare delle chitarre decenti), canzoni dolenti, canzoni personali, canzoni ermetiche, canzoni d’amore leggere e sottili, una bella voce. E c’è uno sguardo che sa andare oltre il proprio ombelico musicale, con arrangiamenti minimali e nitidi che tengono insieme mondi lontanissimi.
Se si lascia suonare Flores in sottofondo, nell’ascolto distratto, il disco sembra poco a poco addentrarsi, dall’Italia della canzone, verso un’Africa (o un sudamerica africano) onirico e immaginato: ricami di ngoni (a cura di Daouda Diabate), andamenti sinuosi, percussioni… Persino il violoncello di Enrico Milani ricorda più la Chamber Music di Vincent Segal con Ballaké Sissoko che non un qualunque arrangiamento cameristico sentito di recente (ascoltate “Ogni giorno ad ogni ora”). “Nuovissimo bestiario veneto” è una sorta di beguine insieme spensierata e melancolica. La ritmica cresce in “Santa Clara”, e decisamente in “Due due due”, filastrocca a tarantella difficile da scordare.
Con la title track strumentale, che chiude il disco, siamo infine in Africa davvero.
Flores esce per Urtovox, insieme alla The Prisoner Record del sopra citato “Mezzala” Bitossi, che dunque si trova in casa due dei dischi italiani migliori dell’anno passato.
Per di più, non sono capace a buttare giù due righe sul comunicato stampa, con qualche parola di circostanza. A volte è davvero difficile scrivere qualcosa di intelligente, anche su dei dischi che ti sono piaciuti, che hai fatto girare tante volte, e di solito è meglio tacere piuttosto che dire banalità. Una “recensione”, una vera recensione, esige tempo e riflessione. E poi ammettiamolo: come io non ho tempo a farla, voi non avete tempo per leggerla. Così, mi riduco a recensire poche cose, quei dischi su cui mi viene subito un’idea forte. O quei dischi che semplicemente non puoi non recensire.
Così facendo però rimangono da parte dischi che mi sono piaciuti, di musicisti che stimo e che meriterebbero almeno un cenno del fatto che ho amato i loro dischi, dato che si sono impegnati a farmeli avere (poi magari non gliene frega niente, ma comunque).
Dunque, essendo negato per i listoni di fine anno, o per decidere quali sono i “migliori dischi” (mica ho ascoltato tutto), mi ri-prometto di ri-proporre ri-ascolti di dischi usciti qualche mese fa, senza l’ansia dell’uscire “a caldo”, e con il tempo tecnico per capire se un disco merita, se è in grado di sopravvivere – nel mio iTunes e magari nella canzone italiana – più del tempo di una promozione ben fatta.
Dunque, il mio personale senso della giustizia oggi ripesca due dischi usciti a ottobre 2015. Due dischi che se vi siete persi, e che se vi interessa quello che succede nella musica italiana (e magari diffidate dello hype del momento dell’universo indie) dovete proprio ascoltare.
<-- Fine dell’introduzione, inizio della parte interessante.
A volte, quando mi chiedono pareri su qualcosa che ho ascoltato, ho il terrore di parlare come quel personaggio (un discografico?) che, nell’ultimo disco di Mezzala, ha la voce di Zibba, e che recita, in “Chissà”:
“Caro Mezzala hai del talento, scrivi in modo originale e profondo, il tuo è un pop intelligente, mi ricorda molto il mondo di quei cantautori romani: fai piacevoli canzoni ma non basta, si tratta purtroppo di musica molto difficile da collocare…”
Irrequieto (The Prisoner Records) è il secondo disco di Michele “Mezzala” Bitossi, che segue a distanza di quattro anni il notevole Il problema di girarsi (che mi piace ricordare per il titolo, uno dei più belli letti in tempi recenti).
L’ironia – e l’autoironia, soprattutto – è uno degli elementi che contribuisce a fare di Irrequieto uno dei dischi italiani più freschi del 2015: il richiamo a “quei cantautori romani” è evidente, e esplicitato anche nelle intenzioni. “Mezzala” cita, in effetti, Ivan Graziani, Eugenio Finardi, Alberto Fortis, Lucio Dalla e Lucio Battisti fra i modelli ideali.
Il disco, però, ha anche il pregio di suonare lontano dalle produzioni italiane solite. Il lavoro con Tristan Martinelli e Ivan Antonio Rossi (quest’ultimo produttore), e con un gruppo di musicisti di ottimo livello (fra cui spiccano alcuni nomi noti per chi segue il miglior jazz italiano: Danilo Gallo al basso, Simone Massaron alla chitarra elettrica, Dimitri Grechi Espinoza al sax contralto, Beppe Scardino al baritono, oltre a una sezione archi) garantisce un suono molto lontano dallo standard dell’indie nostrano. Tutto è molto a fuoco, la voce è trattata bene (spesso raddoppiata) e mai nascosta nel mix. Allo stesso tempo, anche il fantasma della canzone d’autore – con quelle voci “in faccia”, la verbosità di certi testi, certe chitarre elettriche, il basso e la batteria sempre insieme... – è per fortuna molto lontano. Mezzala, genovese, suona insomma molto poco genovese. Irrequieto fila via fra bei suoni americani di chitarra e batteria (ascoltate “Le tue paure”), molti fiati, molta leggerezza, giochi sugli accenti delle parole (“Chissà”) e alcune melodie di grande presa (“Constatazione amichevole”). Il rapporto con il mondo della musica indie, con il mestiere di chi fa musica oggi e di chi la deve (o la dovrebbe) ascoltare, è al centro del testo di alcuni episodi (“La classifica”, e la già citata “Chissà”), con azzeccatissimo spirito del tempo.
Il secondo disco "ripescato" è il terzo lavoro del mestrino Marco Iacampo (o meglio: il terzo a suo nome, dopo lavori in collettivo e dopo l’importante esperienza come Goodmorningboy).
Prodotto e suonato con Leziero Rescigno (Amor Fou, collaboratore di Mauro Ermanno Giovanardi e di molti altri), Flores è un disco di canzone d’autore come dovrebbe essere un disco di canzone d’autore oggi. C’è tutto quello che serve: chitarre che suonano benissimo (un grande problema dell’indie italico sembra essere quello di registrare delle chitarre decenti), canzoni dolenti, canzoni personali, canzoni ermetiche, canzoni d’amore leggere e sottili, una bella voce. E c’è uno sguardo che sa andare oltre il proprio ombelico musicale, con arrangiamenti minimali e nitidi che tengono insieme mondi lontanissimi.
Se si lascia suonare Flores in sottofondo, nell’ascolto distratto, il disco sembra poco a poco addentrarsi, dall’Italia della canzone, verso un’Africa (o un sudamerica africano) onirico e immaginato: ricami di ngoni (a cura di Daouda Diabate), andamenti sinuosi, percussioni… Persino il violoncello di Enrico Milani ricorda più la Chamber Music di Vincent Segal con Ballaké Sissoko che non un qualunque arrangiamento cameristico sentito di recente (ascoltate “Ogni giorno ad ogni ora”). “Nuovissimo bestiario veneto” è una sorta di beguine insieme spensierata e melancolica. La ritmica cresce in “Santa Clara”, e decisamente in “Due due due”, filastrocca a tarantella difficile da scordare.
Con la title track strumentale, che chiude il disco, siamo infine in Africa davvero.
Flores esce per Urtovox, insieme alla The Prisoner Record del sopra citato “Mezzala” Bitossi, che dunque si trova in casa due dei dischi italiani migliori dell’anno passato.
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