A Love Supreme, quattro movimenti in 3D
Marsalis arrangia uno dei capolavori di Coltrane per la Jazz at Lincoln Center Orchestra
Recensione
jazz
“A Love Supreme” è uno di quei dischi a cui spesso si torna a distanza di anni. Lo si scopre con la meraviglia di quel fiume di note e quegli accordi ipnotici, più avanti magari lo si riascolta con un orecchio più attento agli aspetti umani, o alla ricerca di un messaggio che tende a qualcosa di più alto e indefinito. I motivi – al netto del puro piacere dell’ascolto – sono infiniti e ogni volta quella mole di suono, pur arrivando sempre dritta dalla stessa direzione, assume un peso specifico diverso, un nuovo senso.
Quest’anno, a mezzo secolo dalla pubblicazione, non si contano più le celebrazioni di questa immensa opera di John Coltrane: cofanetti, saggi e tributi fanno capolino in ogni formato, fisico e digitale. Non ultima la nuova edizione appena pubblicata dalla Impulse!, A Love Supreme: The Complete Masters, un triplo CD con tutte le take (solo di “Acknowledgement” ci sono sei versioni). Date tutte le implicazioni umane di questo lavoro, è sembrato abbastanza naturale che anche il White Light Festival del Lincoln Center di New York – un evento focalizzato su forme d’arte capaci di “illuminare le numerose dimensioni della nostra esistenza”, per dirla con le parole del direttore artistico Jane Moss – volgesse lo sguardo verso questo monumento della musica. E per farlo ha semplicemente guardato poco più a sud, verso l’edificio di vetro e acciaio che ospita il Jazz at Lincoln Center e la sua orchestra, entrambi guidati da Wynton Marsalis: è stato lui a riarrangiare i quattro movimenti di A Love Supreme facendone materiale per big band.
Sul palco della Alice Tully Hall, la Jazz At Lincoln Center Orchestra ha aperto le danze con una prima parte dedicata ad altri cavalli di battaglia di Coltrane, a partire da una sontuosa “My Favorite Things” che da sola vale mezzo concerto (in questo caso l’arrangiamento è firmato da Ted Nash, uno dei sassofonisti di punta della formazione). L’attacco al pianoforte è vigoroso e potente, una specie di dichiarazione di intenti: non siamo qui per soffiare via la polvere da una illustre pagina del passato, ma per esaltarne ogni sfumatura di colore.
A conti fatti, A Love Supreme in versione big band fa un effetto simile a un film in 3D: chi ama il cinema come forma d’arte probabilmente storcerà il naso e lo bollerà come un orpello inutile, chi vuole buttarsi inforcherà gli occhiali per vedere che succede. Dal palco, quella inarrestabile ondata di suono arriva da ogni direzione: è come essere messi all’angolo da una forza eccezionale, ogni forma di resistenza è inutile. Tanto vale cedere, lasciarsi colpire dal lungo assolo di “Resolution” che Marsalis ha spezzettato in minuscole frasi in cui i fiati si rincorrono a vicenda. Come nelle scene del cinema di tre dimensioni, qualche forzatura è inevitabile, e l’occhio tende a vedere proprio quelle, così come l’orecchio sobbalza alle brevissime pause che puntellano gli arrangiamenti e che interrompono quel flusso di coscienza sonoro inciso nel 1964. Il lavoro di arrangiamento di Marsalis è impegnativo e minuzioso; all’inizio sembra persino troppo intenso per permettere all’orchestra di avvicinarsi alle vette espressive di un monumento come questo. Ogni movimento è separato dall’altro da un lungo solo (e una menzione d’onore va a Carlos Henriquez: il suo momento solistico al contrabbasso è un capitolo a parte in cui ogni nota trabocca di profondità). Ma è sull’ultimo atto, “Psalm”, che le acque si calmano, le maglie della scrittura per big band si fanno più larghe e finalmente viene fuori il senso stesso di questo progetto. La parte più preziosa della serata sta proprio nelle ultime improvvisazioni, in cui ognuno dà voce al proprio Coltrane: ora lirico, ora sfrenato, ora carico di blues. E il fatto che ci vogliano una manciata di straordinari solisti per mettere insieme solo alcune delle caratteristiche di Coltrane è un buon modo per ricordare perché, dopo mezzo secolo, abbia ancora senso non solo celebrarne il genio, ma anche continuare a rimescolare le carte, gli stili e le idee con tutti i mezzi a disposizione di chi fa musica oggi.
Quest’anno, a mezzo secolo dalla pubblicazione, non si contano più le celebrazioni di questa immensa opera di John Coltrane: cofanetti, saggi e tributi fanno capolino in ogni formato, fisico e digitale. Non ultima la nuova edizione appena pubblicata dalla Impulse!, A Love Supreme: The Complete Masters, un triplo CD con tutte le take (solo di “Acknowledgement” ci sono sei versioni). Date tutte le implicazioni umane di questo lavoro, è sembrato abbastanza naturale che anche il White Light Festival del Lincoln Center di New York – un evento focalizzato su forme d’arte capaci di “illuminare le numerose dimensioni della nostra esistenza”, per dirla con le parole del direttore artistico Jane Moss – volgesse lo sguardo verso questo monumento della musica. E per farlo ha semplicemente guardato poco più a sud, verso l’edificio di vetro e acciaio che ospita il Jazz at Lincoln Center e la sua orchestra, entrambi guidati da Wynton Marsalis: è stato lui a riarrangiare i quattro movimenti di A Love Supreme facendone materiale per big band.
Sul palco della Alice Tully Hall, la Jazz At Lincoln Center Orchestra ha aperto le danze con una prima parte dedicata ad altri cavalli di battaglia di Coltrane, a partire da una sontuosa “My Favorite Things” che da sola vale mezzo concerto (in questo caso l’arrangiamento è firmato da Ted Nash, uno dei sassofonisti di punta della formazione). L’attacco al pianoforte è vigoroso e potente, una specie di dichiarazione di intenti: non siamo qui per soffiare via la polvere da una illustre pagina del passato, ma per esaltarne ogni sfumatura di colore.
A conti fatti, A Love Supreme in versione big band fa un effetto simile a un film in 3D: chi ama il cinema come forma d’arte probabilmente storcerà il naso e lo bollerà come un orpello inutile, chi vuole buttarsi inforcherà gli occhiali per vedere che succede. Dal palco, quella inarrestabile ondata di suono arriva da ogni direzione: è come essere messi all’angolo da una forza eccezionale, ogni forma di resistenza è inutile. Tanto vale cedere, lasciarsi colpire dal lungo assolo di “Resolution” che Marsalis ha spezzettato in minuscole frasi in cui i fiati si rincorrono a vicenda. Come nelle scene del cinema di tre dimensioni, qualche forzatura è inevitabile, e l’occhio tende a vedere proprio quelle, così come l’orecchio sobbalza alle brevissime pause che puntellano gli arrangiamenti e che interrompono quel flusso di coscienza sonoro inciso nel 1964. Il lavoro di arrangiamento di Marsalis è impegnativo e minuzioso; all’inizio sembra persino troppo intenso per permettere all’orchestra di avvicinarsi alle vette espressive di un monumento come questo. Ogni movimento è separato dall’altro da un lungo solo (e una menzione d’onore va a Carlos Henriquez: il suo momento solistico al contrabbasso è un capitolo a parte in cui ogni nota trabocca di profondità). Ma è sull’ultimo atto, “Psalm”, che le acque si calmano, le maglie della scrittura per big band si fanno più larghe e finalmente viene fuori il senso stesso di questo progetto. La parte più preziosa della serata sta proprio nelle ultime improvvisazioni, in cui ognuno dà voce al proprio Coltrane: ora lirico, ora sfrenato, ora carico di blues. E il fatto che ci vogliano una manciata di straordinari solisti per mettere insieme solo alcune delle caratteristiche di Coltrane è un buon modo per ricordare perché, dopo mezzo secolo, abbia ancora senso non solo celebrarne il genio, ma anche continuare a rimescolare le carte, gli stili e le idee con tutti i mezzi a disposizione di chi fa musica oggi.
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