Cento di questi TODAYS
Successo per il nuovo festival torinese, con TV on the Radio e Verdena
Recensione
pop
Partito fra qualche dubbio (che sempre serpeggia nella comunità musicale torinese) e qualche polemica (altra specialità della casa), il TODAYS festival diretto da Gianluca Gozzi alla fine vince la scommessa, registra il tutto esaurito (23mila le presenze secondo gli organizzatori) e si dimostra una buona idea, da portare avanti con quella continuità negli anni che soltanto potrà garantirne la crescita.
Pensato inizialmente da molti come l’erede designato di Traffic – almeno dal punto di vista degli investimenti economici della città – TODAYS in realtà ha dimostrato di essere una resurrezione più sostenibile, intelligente e diffusa, di quello Spaziale che tanti hanno rimpianto negli ultimi anni (compreso il sottoscritto).
Uno dei punti di maggior merito del festival è stata la valorizzazione di splendide location in un quartiere periferico, che sovverte l’idea che tutta la musica sia adatta ad occupare il “salotto buono” del centro cittadino, che il Comune aveva portato avanti (a mio avviso sbagliando) negli ultimi anni. Spazio 211 è un’area delle giuste dimensioni per questo tipo di concerti, ed è bene che dei grandi eventi cittadini vi siano tornati. Il nuovo museo Ettore Fico (una decina di minuti a piedi dallo Spazio) ha offerto una magnifica cornice per l’elettronica, e così i Docks Dora (sempre in zona) e l’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli.
GLI HEADLINER. In due occasioni su tre, non hanno deluso le aspettative. I newyorkesi TV on the Radio – molto attesi dopo l’annullamento della loro unica data italiana lo scorso inverno – hanno mostrato di essere una delle band più intelligenti della scena alternativa, capace di superare i cliché da indie rock grazie ad un sound originale e sempre riconoscibilissimo. Se alcune cose dell’ultimo disco Seeds sembravano aver perso un po’ dello smalto dei primi tempi, la resa dal vivo è ineccepibile: Tunde Adebimpe è un frontman magnetico, la sezione ritmica è potente e groovy, David Sitek varia i suoni e colori continuamente. A tratti un po’ penalizzata la resa generale da un missaggio forse un po’ troppo compresso (una scelta consapevole?)
Ci si è resi conto della cosa solo la sera successiva, durante il live dei Verdena, dove la pressione sonora era molto più alta, e ha contribuito alla riuscita di un concerto sporco, imperfetto ma memorabile. Chi ha storto il naso a vedere un gruppo italiano fra gli headliner del festival si dovrebbe ricredere. Se sono in serata – e a Torino lo erano, nonostante lamentassero problemi tecnici sul palco – i Verdena dissipano dal vivo ogni critica che si potrebbe muovere ai loro dischi. Ci si potrebbe chiedere, dal momento che sono uno dei pochi gruppi italiani in cui la voce e i testi non giocano un ruolo centrale, perché non frequentino con continuità i festival stranieri, dove vincerebbero per distacco su molte band più accreditate nel circuito internazionale.
Ci si aspettava una scaletta incentrata sul nuovissimo Endkadenz Vol. 2, uscito il giorno prima (qui la recensione). In realtà, il gruppo ha puntato quasi esclusivamente sugli ultimi tre dischi (compreso naturalmente il volume 1 di Endkadenz, con qualche incursione nei pezzi più vecchi. Ecco, al confronto con quei pochi brani del primo repertorio, le cose più recenti mostrano davvero la portata della crescita dei Verdena negli ultimi 4-5 anni: psichedelia, sviluppi e cambi di ritmo che sanno di progressive, melodie vocali pop (ma del pop che si faceva in Italia negli anni settanta: Battisti su tutti) funzionano incredibilmente bene nell’impasto live. Tanto di cappello. (La chicca: “Scegli me” parte come “Golden Slumbers” dei Beatles).
A proposito di live band: gli Interpol, è apparso evidente, non lo sono. Dall’esordio alla fine degli anni Novanta in odore di retromania new wave a oggi, i newyorkesi non sembrano essere progrediti più di tanto. Lo spleen generale che attraversa tutti i brani si traduce, alla fine, in una grande monotonia sonora e ritmica, e più che la voglia di ballare si avverte una generale noia. I fan della prima ora, comunque, sembrano aver gradito.
UNA (SOLA) NOTTE AL MUSEO. Ho purtroppo mancato Murcof per troppa affluenza: impossibile, nonostante gli incastri di orario lo prevedessero, entrare ai concerti al Museo Fico dopo i main event serali. Sono riuscito a sentire il set di Ikeda solo abbandonando a malincuore i Verdena prima dei bis. Ne è valsa la pena. Supercodex, del musicista giapponese, è una estrema stilizzazione e sintesi della sua poetica, che accosta glitch elettronici e la loro traduzione visiva: un bianco e nero di linee, frattali, disturbi perfettamente ambientato nella grande sala bianca del museo. Il set si apre con una serie di botti isolati, ognuno un lampo di luce. Poco a poco i singoli colpi accelerano fino a generare un suono, un lunga portante acuta. Già questo dà l’idea della povertà dei materiali su cui lavora Ikeda, ricombinando all’infinito suoni elettronici essenziali. L’effetto è a tratti, soprattutto nella seconda parte, di una violenza quasi hard-core, nei momenti in cui affiora più chiaro un andamento ritmico, e i glitch prendono la forma di beat iperveloci.
IL CONTORNO. Una menzione merita, fra le cose viste, Il pensiero sarà un suono, produzione-format ascoltata alla Scuola Holden. L’idea è di mettere un pugno di musicisti della scena “sotterranea” (soprattutto) torinese a confronto con i classici della canzone italiana dagli anni Settanta agli anni Novanta. Fissa la band, con Sandro Serra (Titor), Luca Pisu (Dirty Set /Fratelli di Soledad), Luca Catapano (Black Wings Of Destiny) e Luca Morellato (Sickhead/Blou Daville). A rotazione le voci, con – fra gli altri, Zazzo dei Negazione, Federico Fiumani (apparso il più fuori ruolo), Mao, Franz Goria… – e le narrazioni di Domenico Mungo a collegare i pezzi. Compaiono, trasfigurate, “Per Elisa”, “Alibi”, “Com’è profondo il mare”, “Mio fratello è figlio unico”.
Non tutto è a fuoco, ma il crash fra un suono post-hardcore e il pop italiano regala alcune gemme: come l’incontro inatteso fra i Pixies e Rino Gaetano che arriva verso la fine.
Le aperture dei main event sono state affidate in blocco a Inri, l’etichetta indipendente torinese che più di tutte negli ultimi anni ha saputo crescere e proporsi ad un pubblico nazionale (soprattutto con il buon successo di Levante, in apertura agli Interpol). In generale, l’idea di valorizzare come partner alcune eccellenze cittadine nei cosiddetti “eventi collaterali” (oltre a Inri, Reset festival, Varvara, Superbudda) è ottima, e da proseguire con convinzione. Da rivedere è la presenza esclusiva di una sola etichetta alle aperture delle serate principali, che rischia di trasformare una buona idea in un eccesso di campanilismo. Il roster di Inri è ricco, ma alcuni accostamenti di cast non erano ben assortiti. Ma è questo è davvero l’unico appunto che si può muovere alla direzione artistica, altrimenti ineccepibile.
Pensato inizialmente da molti come l’erede designato di Traffic – almeno dal punto di vista degli investimenti economici della città – TODAYS in realtà ha dimostrato di essere una resurrezione più sostenibile, intelligente e diffusa, di quello Spaziale che tanti hanno rimpianto negli ultimi anni (compreso il sottoscritto).
Uno dei punti di maggior merito del festival è stata la valorizzazione di splendide location in un quartiere periferico, che sovverte l’idea che tutta la musica sia adatta ad occupare il “salotto buono” del centro cittadino, che il Comune aveva portato avanti (a mio avviso sbagliando) negli ultimi anni. Spazio 211 è un’area delle giuste dimensioni per questo tipo di concerti, ed è bene che dei grandi eventi cittadini vi siano tornati. Il nuovo museo Ettore Fico (una decina di minuti a piedi dallo Spazio) ha offerto una magnifica cornice per l’elettronica, e così i Docks Dora (sempre in zona) e l’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli.
GLI HEADLINER. In due occasioni su tre, non hanno deluso le aspettative. I newyorkesi TV on the Radio – molto attesi dopo l’annullamento della loro unica data italiana lo scorso inverno – hanno mostrato di essere una delle band più intelligenti della scena alternativa, capace di superare i cliché da indie rock grazie ad un sound originale e sempre riconoscibilissimo. Se alcune cose dell’ultimo disco Seeds sembravano aver perso un po’ dello smalto dei primi tempi, la resa dal vivo è ineccepibile: Tunde Adebimpe è un frontman magnetico, la sezione ritmica è potente e groovy, David Sitek varia i suoni e colori continuamente. A tratti un po’ penalizzata la resa generale da un missaggio forse un po’ troppo compresso (una scelta consapevole?)
Ci si è resi conto della cosa solo la sera successiva, durante il live dei Verdena, dove la pressione sonora era molto più alta, e ha contribuito alla riuscita di un concerto sporco, imperfetto ma memorabile. Chi ha storto il naso a vedere un gruppo italiano fra gli headliner del festival si dovrebbe ricredere. Se sono in serata – e a Torino lo erano, nonostante lamentassero problemi tecnici sul palco – i Verdena dissipano dal vivo ogni critica che si potrebbe muovere ai loro dischi. Ci si potrebbe chiedere, dal momento che sono uno dei pochi gruppi italiani in cui la voce e i testi non giocano un ruolo centrale, perché non frequentino con continuità i festival stranieri, dove vincerebbero per distacco su molte band più accreditate nel circuito internazionale.
Ci si aspettava una scaletta incentrata sul nuovissimo Endkadenz Vol. 2, uscito il giorno prima (qui la recensione). In realtà, il gruppo ha puntato quasi esclusivamente sugli ultimi tre dischi (compreso naturalmente il volume 1 di Endkadenz, con qualche incursione nei pezzi più vecchi. Ecco, al confronto con quei pochi brani del primo repertorio, le cose più recenti mostrano davvero la portata della crescita dei Verdena negli ultimi 4-5 anni: psichedelia, sviluppi e cambi di ritmo che sanno di progressive, melodie vocali pop (ma del pop che si faceva in Italia negli anni settanta: Battisti su tutti) funzionano incredibilmente bene nell’impasto live. Tanto di cappello. (La chicca: “Scegli me” parte come “Golden Slumbers” dei Beatles).
A proposito di live band: gli Interpol, è apparso evidente, non lo sono. Dall’esordio alla fine degli anni Novanta in odore di retromania new wave a oggi, i newyorkesi non sembrano essere progrediti più di tanto. Lo spleen generale che attraversa tutti i brani si traduce, alla fine, in una grande monotonia sonora e ritmica, e più che la voglia di ballare si avverte una generale noia. I fan della prima ora, comunque, sembrano aver gradito.
UNA (SOLA) NOTTE AL MUSEO. Ho purtroppo mancato Murcof per troppa affluenza: impossibile, nonostante gli incastri di orario lo prevedessero, entrare ai concerti al Museo Fico dopo i main event serali. Sono riuscito a sentire il set di Ikeda solo abbandonando a malincuore i Verdena prima dei bis. Ne è valsa la pena. Supercodex, del musicista giapponese, è una estrema stilizzazione e sintesi della sua poetica, che accosta glitch elettronici e la loro traduzione visiva: un bianco e nero di linee, frattali, disturbi perfettamente ambientato nella grande sala bianca del museo. Il set si apre con una serie di botti isolati, ognuno un lampo di luce. Poco a poco i singoli colpi accelerano fino a generare un suono, un lunga portante acuta. Già questo dà l’idea della povertà dei materiali su cui lavora Ikeda, ricombinando all’infinito suoni elettronici essenziali. L’effetto è a tratti, soprattutto nella seconda parte, di una violenza quasi hard-core, nei momenti in cui affiora più chiaro un andamento ritmico, e i glitch prendono la forma di beat iperveloci.
IL CONTORNO. Una menzione merita, fra le cose viste, Il pensiero sarà un suono, produzione-format ascoltata alla Scuola Holden. L’idea è di mettere un pugno di musicisti della scena “sotterranea” (soprattutto) torinese a confronto con i classici della canzone italiana dagli anni Settanta agli anni Novanta. Fissa la band, con Sandro Serra (Titor), Luca Pisu (Dirty Set /Fratelli di Soledad), Luca Catapano (Black Wings Of Destiny) e Luca Morellato (Sickhead/Blou Daville). A rotazione le voci, con – fra gli altri, Zazzo dei Negazione, Federico Fiumani (apparso il più fuori ruolo), Mao, Franz Goria… – e le narrazioni di Domenico Mungo a collegare i pezzi. Compaiono, trasfigurate, “Per Elisa”, “Alibi”, “Com’è profondo il mare”, “Mio fratello è figlio unico”.
Non tutto è a fuoco, ma il crash fra un suono post-hardcore e il pop italiano regala alcune gemme: come l’incontro inatteso fra i Pixies e Rino Gaetano che arriva verso la fine.
Le aperture dei main event sono state affidate in blocco a Inri, l’etichetta indipendente torinese che più di tutte negli ultimi anni ha saputo crescere e proporsi ad un pubblico nazionale (soprattutto con il buon successo di Levante, in apertura agli Interpol). In generale, l’idea di valorizzare come partner alcune eccellenze cittadine nei cosiddetti “eventi collaterali” (oltre a Inri, Reset festival, Varvara, Superbudda) è ottima, e da proseguire con convinzione. Da rivedere è la presenza esclusiva di una sola etichetta alle aperture delle serate principali, che rischia di trasformare una buona idea in un eccesso di campanilismo. Il roster di Inri è ricco, ma alcuni accostamenti di cast non erano ben assortiti. Ma è questo è davvero l’unico appunto che si può muovere alla direzione artistica, altrimenti ineccepibile.
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