Bunker e jazz club | 2

Seconda puntata del reportage sulla musica sudafricana

Recensione
jazz
Seconda puntata del blog di Marcello Lorrai dal Sudafrica: dopo il jazz al The Orbit di Johannesburg, l'incontro con Dave Coplan, antropologo e musicologo

Nel 2008 avevo recensito per “il manifesto” una mostra al Centre de Cultura Contemporania di Barcellona, Apartheid. El espejo sudafricano, e più tardi mi ero accorto che una frase dell’articolo - «l’esposizione, oltre alle forme di separazione sociale, segnala fra l’altro l’ossessione securitaria e la bunkerizzazione delle ville dei ricchi» - era citata da treccani.it come esempio della diffusione del neologismo "bunkerizzazione". Arrivato a Johannesburg, la prima cosa che mi colpisce è vederla dal vero, adesso, la bunkerizzazione. Eccola lì: un tripudio di muri di cinta, inferriate, spuntoni, filo spinato, fili dove passa la corrente elettrica, eccetera. Anche in una parte della città almeno all’apparenza assai tranquilla, quasi sonnolenta come Melville, una zona un po’ collinare, piena di verde, residenziale, con viali su cui si affacciano (si fa per dire: sono tutte un po’ rinserrate dietro i loro bastioni di difesa) quelle che noi definiremmo delle villette, e dove a piedi non gira praticamente anima viva e circolano solo rare automobili.

Alla guesthouse dove alloggio mi consegnano un mazzo di chiavi che mi pare di essere un secondino: cancello davanti, cancello dietro, cancello che dopo le dieci di sera protegge la porta d’ingresso dell’edificio, eccetera. L’area dove poi, a fine ottocento, è stata creata Johannesburg sembra avere rivestito una notevole importanza ben prima, nella notte dei tempi, e conta una quantità di siti con tracce di vita che risalgono fino a due milioni e mezzo di anni fa: proprio qui a Melville, su una collinetta a due passi dalla guesthouse, sono stati trovati i resti di uno degli insediamenti più antichi, e storicizzando e ragionando sull’ultimo paio di secoli del Sudafrica cerco di sfuggire al pensiero che un’eternità di esperienza umana possa essere sintetizzata nel trasloco della paura dalle grotte degli ominidi alle casematte dell’Uomo di Internet. Certo, dovendo giudicare dai più appariscenti sistemi di difesa di queste abitazioni, siamo ancora in piena Età del Ferro (che nella regione dell’attuale Johannesburg ebbe uno sviluppo molto significativo). Mi spiegano che giusto dietro la guesthouse c’è una strada dove posso trovare bar, ristoranti, negozi. Si chiama 7th Street ed è un po’ come nel vecchio west: tutto allineato sui due lati per qualche centinaio di metri. Poi, finita la strada, finito tutto; ci sono solo un paio di traverse - mi fa sorridere che si chiamino "avenue" - dove c’è qualcosina, qualche limitata propaggine di attività che sborda dietro l’angolo della via.

L’associazione con il vecchio west è favorita anche dal fatto che le case sono basse, per lo più piano terra o al massimo un primo piano, e che ci sono un po’ di portici. In compenso i locali, dall’aria piuttosto trendy, fanno pensare come gusto più all’Europa che all’America; oltre a bar e ristoranti, con taxi che stazionano, e ad un paio di empori gestiti da asiatici, ci sono anche una piccola galleria d’arte e una buona libreria che vende libri usati, e avrò modo di constatare che una libreria a Johannesburg, come del resto a Cape Town, è un bene prezioso che non si trova ad ogni passo.

In effetti 7th Street non è un lembo di periferia, come può sembrare di primo acchito al mio occhio europeo, ma è semplicemente un pezzo di una città organizzata secondo criteri un po’ diversi da quelli a me più familiari. Una via che a Johannesburg è nota ed è persino un riferimento, con la sua brava importanza. David Coplan, con cui ci troviamo a mangiare un boccone proprio in un ristorante della 7th, mi racconta che sta scrivendo un libro sul Bassline, che adesso si è trasferito altrove, nel quartiere di Newtown, ed è il locale di musica dal vivo più importante di Johannesburg, che riserva al jazz solo una sera alla settimana, ma che è nato come club di jazz proprio in 7th Street nel fatidico ‘94, l’anno delle elezioni con cui l’ANC salì al potere. Dire un club di jazz è dire poco: negli anni novanta il Bassline - mi spiega Coplan - fu uno dei luoghi decisivi dell’esplosione culturale seguita alla caduta dell’apartheid, frequentato da appassionati ma anche dall’intellighenzia, da ministri, da ambasciatori. Per uno che arriva dall’esterno magari non è tanto facile accorgersene - mi dice - ma a Johannesburg c’è molta cultura, molta elaborazione; e usa la stessa parola - "energia" - che ha adoperato per parlarmi della città anche Carlo Mombelli, che mi diceva che non cambierebbe mai con la più piacevole Cape Town. A Johannesburg c’è tanta energia, mi dice con entusiasmo Coplan, e rincara la dose su Cape Town: a Cape Town si parla molto, intanto a Johannesburg si fa. E conclude: Johannesburg è un po’ la New York del Sudafrica.

Coplan sa di cosa parla, perchè è proprio di New York. Vive stabilmente in Sudafrica dal ‘93, ma già prima c’era stato abbastanza da poter pubblicare nell’85 con un editore sudafricano In Township Tonight!, un lavoro sul jazz e la musica, la danza e il teatro popolari in ambito urbano che ha fatto epoca, e che ho da almeno un quarto di secolo. Gli dico di un po’ di frustrazione nel reperire librerie e libri. Mi assicura che delle buone librerie ci sono, ma per esempio la nuova edizione, completamente rinnovata, del suo testo, pubblicata nel 2008 da The University of Chicago Press, è effettivamente introvabile in Sudafrica, e bisogna ordinarlo in internet dagli Stati Uniti. Nei bookshop che ho trovato, fondamentalmente negli aeroporti o in centri commerciali, ho visto molta produzione su eroi, momenti salienti, episodi e aspetti della lotta contro l’apartheid, e molto sul Sudafrica post-apartheid, mentre molto meno quanto a saggistica su arte e cultura sudafricana, e per esempio sulla musica. Nelle catene di librerie ci sono un’infinità di libri sul rock e auto/biografie di star, ma sostanzialmente niente sulla musica sudafricana, Makeba a parte.

Mi colpisce fra l’altro che praticamente la maggior parte dei lavori di riferimento sulla musica moderna/popolare sudafricana non siano stati scritti da sudafricani: Marabi Nights, pubblicato nel ‘93 dalla stessa Ravan Press che aveva pubblicato In Township Tonight!, e più esile del libro di Coplan, è stato scritto da Christopher Ballantine, docente all’università di Johannesburg, forse soprattutto di rimessa, per ragioni accademiche, per non lasciare campo completamente libero ad un libro firmato da un americano; Gwen Ansell, autrice di Soweto Blues: Jazz, Popular Music, and Politics in South Africa (2004), è inglese; mentre Denis-Constant Martin, autore di Sounding the Cape Music, Identity and Politics in South Africa (2013), è francese. Insomma, malgrado fior di università (dove Coplan continua ad insegnare) mi pare ci sia un certo deficit di tematizzazione della musica. Forse anche una certa inerzia editoriale: uscendo dall’ambito musicale trovo sorprendente per esempio che sia introvabile una fondamentale raccolta di saggi di Lewis Nkosi, uno dei grandi giornalisti-scrittori di Drum, Home and Exile, uscito nel ‘65, ristampato a Londra nell’83 e di cui su internet si possono trovare nella migliore delle ipotesi solo copie a prezzi proibitivi. Coplan mi racconta che un suo allievo ne ha una, che conserva religiosamente ma che si sta ormai sbriciolando.

Chiedo a Coplan se esce spesso per ascoltare musica. Mi dice che uno dei motivi per cui gli piace vivere in Sudafrica, oltre al fatto che è un bel paese, è che il costo della vita consente degli agi che a New York pagheresti carissimi, come per esempio una casa spaziosa, ma non ultima anche la possibilità di andare con regolarità almeno settimanale in un club ad ascoltare del jazz, spendendo molto ma molto meno che nella Grande Mela: e che in più a Johannesburg se per un po’ non vai in un club, quando ci torni ti chiedono perchè da tanto non ti sei fatto vedere, e ti fanno sentire che ci tengono a te. Parliamo del panorama musicale, e ne ricavo degli elementi in più per una schematica mappatura, che provo qui di seguito ad abbozzare con tutte le approssimazioni del caso.

Jazz. È ancora popolare fra le generazioni di una certa età delle township, legate alla vicenda storica del jazz sudafricano. Poi c’è una generazione nera di mezza età, le coppie benestanti che vanno ad ascoltare jazz nei club, una piccola borghesia per la quale andare a sentire jazz è come un’autoconferma del loro essere "arrivati", ma non solo in termini di soddisfazioni materiali: per loro il jazz non è unicamente un simbolo di status, ma anche un sinonimo di libertà, un valore di estrema importanza per questa generazione di neri, che ha fatto in tempo ad uscire dall’apartheid ancora giovane. C’è poi un pubblico di giovani anche bianchi, acculturati, studenti universitari.

Afropop. Con questo termine ci si riferisce ad un pop - rappresentato da gruppi come Freshlyground e Mafikizolo - con elementi di musica popolare e di jazz piuttosto piacevole, smooth. La forza di questo genere è di essere popolare non solo nelle township ma anche nelle città, presso un pubblico tanto nero quanto bianco. Questo consente agli artisti più popolari dell’afropop di fare concerti per migliaia di spettatori in ambito urbano, dove il pubblico può pagare un biglietto ad un prezzo significativo. Il notevole giro economico dell’afropop si traduce fra l’altro nella possibilità di realizzare - come nel caso di Mafikizolo - dei clip spesso di notevole qualità, con storie vere e proprie, personaggi ben caratterizzati, mettendo a frutto la padronanza del linguaggio video e l’alto livello tecnico disponibili in Sudafrica.



House. È una musica che in Sudafrica ha da anni una grandissima diffusione. Piace soprattutto ad un pubblico più maturo di quello dell’hip hop, tra i venti e i quaranta, con un ampio fenomeno di transizione ad una certa età dall’ascolto dell’hip hop a quello della house.

Cori. I cori e il gospel sono un fenomeno di massa, patrocinati dalle chiese ma radicati anche in altri ambiti, oltre a quelli più strettamente legati alle tradizioni popolari. Sono non solo seguiti ma anche molto partecipati dai giovani, anche delle università, che amano cantare in un coro.

Hip hop. È ascoltato soprattutto dai più giovani, e ha conosciuto una forte diffusione, anche se non ha veramente sfondato in Sudafrica. E qui si torna al punto precedente: «Il Sudafrica è un paese di gente che canta - mi dice Coplan - che cantando ha affrontato senza armi la repressione e ha conquistato la libertà. Perciò al fondo l’atteggiamento sudafricano rispetto all’hip hop è: ma perchè apri bocca se poi non canti?».

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