Vicenza Jazz 2 | Felicità da Saturno

L'Arkestra sbarca al Teatro Olimpico

Recensione
jazz
Gran finale di Vicenza Jazz al Teatro Olimpico, luogo di visioni architettoniche e illusioni prospettiche per eccellenza. I condizionamenti sono molti per Wayne Horvitz nella sua performance in piano solo. Anche ambientali, legati alla presenza, lì a due passi da lui, di sedie e leggii, ottoni luccicanti e percussioni varie. Nell’aria c’è anche una certa tensione per il previsto arrivo di un’astronave che dovrebbe scaricare alieni provenienti da Saturno.
Ma il pianista americano sa il fatto suo. Sperimentatore in contesti e ambientazioni sonore più disparate e avventurose, Horvitz costruisce il set come un cesellatore che lavora sul dettaglio, sul particolare. Attacco soft, leggermente sognante. Sullo strumento ha pc e un attrezzo elettronico che usa con discrezione in una gestualità controllata, correggendo, deformando suoni, replicando frasi, ma lasciando fondamentalmente al pianoforte la propria ricchezza armonica. Brevi quadri, pastelli trasparenti, mai banali, con un retrogusto inquieto. Si passa da minimalismi, quasi silenzi feldmaniani, a corposi cluster, grappoli accordali. Da estetiche contemporanee a inflessioni blues. Reminiscenze stride in un omaggio a Duke Ellington e come finale, guarda caso, proprio una composizione di Sun Ra. Ideale tappeto rosso da srotolare per accogliere gli alieni in arrivo.

Ci siamo, arriva l’Arkestra! Brazzale chiama i musicisti uno per uno per pratici motivi di sistemazione sul palco. Ma tutto si trasforma in una esilarante passerella, cerimoniale che si snoda tra colori scintillanti, lustrini, mascherature eccentriche e gag, che raggiunge l’apice con l’arrivo di Marshall Allen (classe 1924!) che saltella sul palco come un menestrello. È lui la memoria storica di Sun Ra, è lui che ha garantito nel tempo la vitalità dell’ensemble, è lui il ministro degli esteri di Saturno. «La mia musica prima di tutto deve incutere paura alle persone. Essa rappresenta la felicità alla quale esse non sono abituati».
Quest’affermazione di Sun Ra è straordinariamente attuale. Come pubblico-ascoltatore dobbiamo anche oggi, rivedere, resettare vizi, aprire steccati mentali. Altrimenti come potremo “accettare” l’Arkestra? Il messaggio è chiaro: una specie di folklore immaginario che attraverso un viaggio interplanetario nel passato (le grandi orchestre, il bebop, l’universo ellingtoniano) si caratterizza nella ricerca di ambientazioni sonore inusuali, l’uso dell’elettronica, ruolo delle percussioni e libere scorribande. A fronte di riferimenti conosciuti e rassicuranti Sun Ra così ci ha avvicinato all’avanguardia. Mantenere questi valori, l’dea di una band come una setta musicale che vive e suona insieme, è dura. Eppure anche oggi l’Arkestra, pur nei suoi ciclici travolgimenti di formazione, mantiene un proprio fascino, una credibilità. Il livello strumentale è sempre notevole, e a fronte di defezioni il collettivo recupera. Sul palco dell’Olimpico il rito è piacevole, forse un po’ stiracchiato nelle cerimonie finali. La front line rimane il punto di forza: oltre Allen, con il suo lirismo orientaleggiante, il tenore di James Stuart, il baritono e il flauto di Danny Ray Thompson, il trombone di Dave Davis, la tromba di Cecil Brooks e il corno di Vincent Chancey garantiscono un buon sound, come sanguigni soli su pulsanti tappeti swing. Un po’ troppo anonima la sezione percussiva, mentre al pianoforte e tastiere Farid Barron, pur dimostrando una enciclopedica cultura, non va oltre un contributo tradizionale. Con il passare del tempo suoni e intrecci si moltiplicano, il parossismo cresce come febbre collettiva, la band perde volutamente l’idea dei ruoli, i musicisti si scambiano gli strumenti. I fiati si immergono nel teatro, tra la gente. L’Olimpico diventa l’Arkestra. Un caos colorato e danzante, cori e magie. Come per dire: la musica è vostra, prendetela! E noi ce la prendiamo volentieri. Forse è la felicità cui non siamo abituati.

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