Vicenza Jazz 1 | Trombe visionarie (con cappello)

Da Taylor Ho Bynum a Rob Mazurek, cercando Sun Ra

Recensione
jazz
Il tramonto sulla penultima serata di Vicenza Jazz 2014 al Comunale promette bene. Pian piano i nuvoloni si allontanano, si aprono e filtra una luce trasversale, un colore indefinito che rimbalza sul bianco della Basilica Palladiana esaltando forme e volumi. Chissà se c’è lo zampino da lassù di Herman “Sonny” Blount – ovvero Sun Ra – al quale il Festival è dedicato, con nove giorni zeppi di proposte musicali e performance nelle location più disparate. Come sempre un programma lungo, ambizioso, macchinoso, che rischia a tratti, nella sua nevrotica onnipresenza e sovrapposizioni, di disperdere il messaggio tematico. Quest’anno il direttore artistico Riccardo Brazzale ci ammalia con “Visual & Visionary Jazz – Sull’Arka di Sun Ra, tra vecchie e nuove avanguardie”, e prova a spiazzarci evocando la figura di Ra che - in quanto a capacità di procurare disorientamenti - è inarrivabile. Proviamo allora a partire per un viaggio interplanetario verso Saturno, alla ricerca di chi affermava di non essere mai nato perché solo chi nasce muore…

Taylor Ho Bynum, Mary Halvorson, Benoît Delbecq e Tomas Fujiwara alla loro prima uscita ufficiale guidano con destrezza l’astronave. Un vero laboratorio il quartetto, di chiara discendenza braxtoniana, dove la collettivizzazione della musica esprime momenti di grande intensità e ci dà la misura della ricerca sonora di New York e dintorni. Musica libera, ma non free. La composizione, la partitura, sono la piattaforma di partenza. La filosofia post-colemaniana chiave di accesso culturale, emozionale ma sviluppata in una trasfigurazione sonoro-creativa che porta da altre parti, più a sfiorare l’estetica contemporanea che quella afroamericana. Quattro leader che compongono, elaborano musiche dove scovare vie d’uscita, rompere schemi per infilarsi in tunnel astratti e radicali. La chitarra della Halvorson, sempre originale nella distribuzione di onde sonore che garantiscono densità all’impasto collettivo, dialoga con la tromba, sviluppa unisoni con il pianoforte, si avventura in soli distorti. I brillanti ottoni di Ho Bynum giocano su acuti, alla ricerca di climax estremi, ma si muovono anche sul fronte di quieti panorami con l’uso di sordine (e anche di un cappello). Il pianoforte di Delbecq sforna un intrigante, percussivo tappeto armonico, meno convincente nelle uscite solistiche. Il drumming di Fujiwara è asfissiante e frastagliato quanto basta per tenere sospeso il percorso. Un set notevole dove la ricerca creativa del quartetto, in una indefinita e libera cifra stilistica, deve probabilmente limare ancora equilibri, qualche freddezza, ma con potenzialità esponenziali assolute.

Il secondo set – quello con l’organo Hammond di Barbara Dennerlein, Romero alla chitarra e Rodrigo Rodriguez batteria-percussioni – ad essere fin troppo buoni potremo classificarlo come un incidente di percorso (anche con buon contributo da parte dei tecnici del suono). Per una bella fetta di concerto la tastierista tedesca non può sfruttare tutte le meraviglie sonore del proprio strumento che produce i rumori più imbarazzanti. C’è da dire che dimostra, in questa difficile fase, una notevole professionalità. Rimane calma, sorride, intrattiene il pubblico in modo affabile. Paradossalmente le cose non vanno meglio quando i problemi vengono risolti. Nel senso che è allora che emerge in modo chiaro la trasparente pochezza di questo trio. La Dennerlein è una virtuosa. Sviluppa in modo personale la lezione di Jimmy Smith nel fraseggio, l’uso percussivo della tastiera ed è un’acrobata della pedaliera. Mette in gioco tutte le sue passioni: jazz, blues e rock, anche una vena melodica nell’omaggio ad un amico scomparso. Romero con la chitarra flamenca è un mostro di bravura, ma quando si confronta con improvvisazione jazz o ambientazioni funky-blues rimane al palo. Il colombiano Rodriguez, bravo alle conga - ma quasi imbarazzante alla batteria. Insomma, rimane da chiedersi perché una leader come la Dennerlein che ama spaziare tra i generi si attorni di musicisti che non possono offrirle un contributo all’altezza.

Con un po’ di delusione dentro ci spostiamo qualche chilometro fuori città per il concerto delle ventiquattro. Il navigatore ci fa fare qualche giro improbabile ma alla fine raggiungiamo Villa Ghislanzoni Curti per Rob Mazurek São Paulo Underground. Ne valeva la pena. Il concerto è cominciato da qualche minuto e la vibrazione sonora ci raggiunge già al posteggio esterno. La location è una meraviglia. Una villa veneta del XVIII secolo con un grande prato verde incorniciato da una miriade di lanterne tremolanti che ci guidano sotto il porticato. Da lì viene la musica, i posti a sedere sono tutti occupati e fa anche un po’ freddo. Sul piccolo palco invaso da cavi intricati, attorniato da grandi orci colmi di gerani di un rosso sanguigno il trio di Mazurek con Guilherme Granado (tastiere, campionatore, voce) e Mauricio Takara (batteria, cavaquinho ed elettronica). Basta poco per capire che l’astronave di Sun Ra è posteggiata da quelle parti. Una musica che toglie il respiro per impatto sonoro e capacità visionaria. Una trance dove la trama è così fitta, impenetrabile e costante che pare un muro che spinge, mentre sotto i piedi pulsa qualcosa di vivo. Nella cornetta di Mazurek c’è tutto. C’è il Davis di Fillmore, il romanticismo free di Dixon, i growls di Bowie, ma soprattutto la poesia anarchica di Cherry, in un mix esplosivo personalizzato in modo sublime. Un trombettista che non sbaglia un progetto scrivendo tra le pagine più coinvolgenti del jazz contemporaneo, e che si attornia di due geniacci che stravolgono, rileggono il retroterra latino nell’uso di marchingegni elettronici, tastiere e campionamento della voce in una trama percussiva secca e tellurica.
Il massimo per una festival dedicato ai visionari.

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