Torino Jazz Festival 2 | Immaginazione condivisa
L'incontro - a distanza - fra Manu Dibango e Enzo Avitabile
Recensione
jazz
Fra acquazzoni, arcobaleni, presentazioni e concerti, il Torino Jazz Festival continua. È un festival bulimico, in cui pochi – salvo i turisti e il direttore artistico: non appartengo a nessuna delle due categorie – riescono a seguire tutto, o quasi tutto.
Non rimane che farsi i propri percorsi, cercando una propria coerenza fra le moltissime e diversificate proposte: le due serate di martedì e mercoledì, sul main stage di Piazza Castello, offrono ad esempio un accostamento perfettamente logico fra Manu Dibango e Enzo Avitabile. Non tanto per quella diffusa (e fastidiosa) retorica “globalista” del meticciato musicale a cui entrambi i musicisti – il camerunese e il napoletano – sono continuamente associati. Quanto per la gioiosa conferma che la cosiddetta “world music” ha più a che fare con l’immaginazione – della musica, ma anche del mondo tout court - che non con l’abusata retorica della contaminazione.
Basterebbe, semplicemente, cambiare il nostro punto di osservazione su questi fenomeni musicali. Dibango, pioniere di un suono africano “globale”, esemplifica perfettamente questa posizione. La sua hit del 1972 “Soul Makossa” non è solo l’incontro/innesto fra un genere urbano africano (la makossa, appunto) e una produzione di successo per il mercato americano ed europeo, con elementi di musica nera “mainstream” (il “soul”), orientata ormai verso la disco music. Cambiando prospettiva, la musica di Dibango documenta la fascinazione africana per le “altre” musiche afro-: afro-americane, afro-cubane, afro-caraibiche, il jazz… È cioè una musica immaginata, non una semplice contaminazione o giustapposizione di stili. Una musica fondata sul riconoscersi in un complesso di musiche, e in una visione del mondo. È grazie a questo che la musica del sassofonista, sempre uguale a se stessa e proprio per questo sempre nuova, può tenere insieme ogni ritmo possibile (la makossa, il reggae, la disco, il calypso…), immaginandoli come fossero una cosa sola. Il groove – e Dibango, a 81 anni, non si risparmia un solo intervento di sax a sostenerlo – è fondato su questo sentimento, su questa, appunto, immaginazione. “Soul Makossa” arriva nei bis, chiesta a gran voce da un pubblico dove abbondano maglie della nazionale del Camerun e bandiere da tutta l'Africa.
Con questo presupposto, non è difficile capire come l’Africa e la black music vista dalla Napoli di Enzo Avitabile non siano meno “vere” di quelle di Dibango. Il sassofonista, con i “suoi” Bottari e una solida sezione ritmica a tenere su un groove implacabile, lavora con citazioni più esplicite – da “Fischia il vento” a Tina Turner, da Mori Kante a James Brown, da Fela Kuti alla tarantella – anche rivisitando alcuni suoi classici del passato, come “Soul Express”, che ricorda di aver suonato per la prima volta a Torino trent’anni fa. Tutto torna, infine, quando appare sul palco a fine concerto, a sorpresa, Javier Girotto, ospite del Fringe. I due sassofonisti si sono incontrati, conosciuti e soprattutto “riconosciuti” poche ore prima, alla conferenza stampa di presentazione: questione, anche qui, di immaginazioni condivise.
A metà strada fra Douala e Napoli (con, si diceva, breve deviazione a Cordoba, Argentina), il pubblico del Conservatorio ha avuto in sorte la possibilità di assistere al duo stellare fra Kenny Barron e Dave Holland. Nell’interplay brilla, soprattutto, il contrabbassista, che mostra inventiva, fraseggio e timing superlativi (aneddoto: riesce a continuare imperterrito un complesso solo, senza scomporsi né perdere il tempo, mentre il puntale del contrabbasso si sgancia di netto e rientra nella cassa dello strumento. La classe si vede anche nelle difficoltà). Barron sembra dapprincipio inseguire in posizione più defilata, raggiungendo solo nella seconda parte – su atmosfere più “monkiane” – il livello del compagno. In scaletta pezzi di composizione a firma sia di Barron che di Holland (“Calypso”, “What if?”), dediche a Ed Blackwell, Kenny Wheeler e Billy Strayhorn (una toccante “Daydream”).
Non rimane che farsi i propri percorsi, cercando una propria coerenza fra le moltissime e diversificate proposte: le due serate di martedì e mercoledì, sul main stage di Piazza Castello, offrono ad esempio un accostamento perfettamente logico fra Manu Dibango e Enzo Avitabile. Non tanto per quella diffusa (e fastidiosa) retorica “globalista” del meticciato musicale a cui entrambi i musicisti – il camerunese e il napoletano – sono continuamente associati. Quanto per la gioiosa conferma che la cosiddetta “world music” ha più a che fare con l’immaginazione – della musica, ma anche del mondo tout court - che non con l’abusata retorica della contaminazione.
Basterebbe, semplicemente, cambiare il nostro punto di osservazione su questi fenomeni musicali. Dibango, pioniere di un suono africano “globale”, esemplifica perfettamente questa posizione. La sua hit del 1972 “Soul Makossa” non è solo l’incontro/innesto fra un genere urbano africano (la makossa, appunto) e una produzione di successo per il mercato americano ed europeo, con elementi di musica nera “mainstream” (il “soul”), orientata ormai verso la disco music. Cambiando prospettiva, la musica di Dibango documenta la fascinazione africana per le “altre” musiche afro-: afro-americane, afro-cubane, afro-caraibiche, il jazz… È cioè una musica immaginata, non una semplice contaminazione o giustapposizione di stili. Una musica fondata sul riconoscersi in un complesso di musiche, e in una visione del mondo. È grazie a questo che la musica del sassofonista, sempre uguale a se stessa e proprio per questo sempre nuova, può tenere insieme ogni ritmo possibile (la makossa, il reggae, la disco, il calypso…), immaginandoli come fossero una cosa sola. Il groove – e Dibango, a 81 anni, non si risparmia un solo intervento di sax a sostenerlo – è fondato su questo sentimento, su questa, appunto, immaginazione. “Soul Makossa” arriva nei bis, chiesta a gran voce da un pubblico dove abbondano maglie della nazionale del Camerun e bandiere da tutta l'Africa.
Con questo presupposto, non è difficile capire come l’Africa e la black music vista dalla Napoli di Enzo Avitabile non siano meno “vere” di quelle di Dibango. Il sassofonista, con i “suoi” Bottari e una solida sezione ritmica a tenere su un groove implacabile, lavora con citazioni più esplicite – da “Fischia il vento” a Tina Turner, da Mori Kante a James Brown, da Fela Kuti alla tarantella – anche rivisitando alcuni suoi classici del passato, come “Soul Express”, che ricorda di aver suonato per la prima volta a Torino trent’anni fa. Tutto torna, infine, quando appare sul palco a fine concerto, a sorpresa, Javier Girotto, ospite del Fringe. I due sassofonisti si sono incontrati, conosciuti e soprattutto “riconosciuti” poche ore prima, alla conferenza stampa di presentazione: questione, anche qui, di immaginazioni condivise.
A metà strada fra Douala e Napoli (con, si diceva, breve deviazione a Cordoba, Argentina), il pubblico del Conservatorio ha avuto in sorte la possibilità di assistere al duo stellare fra Kenny Barron e Dave Holland. Nell’interplay brilla, soprattutto, il contrabbassista, che mostra inventiva, fraseggio e timing superlativi (aneddoto: riesce a continuare imperterrito un complesso solo, senza scomporsi né perdere il tempo, mentre il puntale del contrabbasso si sgancia di netto e rientra nella cassa dello strumento. La classe si vede anche nelle difficoltà). Barron sembra dapprincipio inseguire in posizione più defilata, raggiungendo solo nella seconda parte – su atmosfere più “monkiane” – il livello del compagno. In scaletta pezzi di composizione a firma sia di Barron che di Holland (“Calypso”, “What if?”), dediche a Ed Blackwell, Kenny Wheeler e Billy Strayhorn (una toccante “Daydream”).
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