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Renzo Arbore, i natali del jazz e la crisi dei musicisti

Recensione
jazz
Quando ero bambino mi piaceva tantissimo spulciare tra i vinili di famiglia. Sul retro di uno di questi, un’antologia di jazz tradizionale, mio papà aveva cerchiato con la penna i nomi di tutti i jazzisti di origine italiana, gente come Nick La Rocca, Joe Venuti, Leon Roppolo o – assai meno famoso, ma all’epoca mi faceva molto ridere – il trombonista Santo Pecora.

Mi è tornata in mente questa cosa mentre sul web rimbalzano - merito in primis di alcuni blog tra cui Mi Piace il Jazz e Mondo Jazz commenti e riflessioni sullo speciale televisivo di Renzo Arbore intitolato "Da Palermo a New Orleans... e fu subito jazz", messo in onda da Rai2 qualche giorno fa.

Il contributo dei musicisti italoamericani al processo artistico e culturale di nascita del jazz, è un fattore ampiamente riconosciuto e consolidato. Infastidisce però la "tesi" sbandierata da Arbore sulla presunta e sottaciuta vera origine siciliana del jazz.
Per carità, in un mondo in cui Giovanni Allevi può passare per un musicista di valore o Zucchero per un grande bluesman, non c’è troppo da stupirsi. Ma è abbastanza sconcertante la naturalezza con cui si continua a parlare di jazz, nei rarissimi spazi che la comunicazione di massa riserva a esso, sempre e solo in termini di desolante approssimazione e scaltra opportunità.

Non si può dunque che sottoscrivere quanto Gianni Morelenbaum Gualberto ha scritto a Aldo Grasso del Corriere della Sera.

Ma credo sia anche ora di riflettere di più su questa "trovata" del "jazz italiano", sorta di marchio che se da un lato sembra offrire (un po’ ai soliti noti, un po’ con la consueta leggerezza vagamente piaciona che accompagna queste dinamiche) insperata visibilità presso compiacenti Istituti di Cultura all’estero o sistemi informativi ampiamente prestati all’accondiscendenza faziosa – nel senso del conduttore televisivo prima ancora che letterale – dall’altro denuncia l’inequivocabile provincialismo che sembra non smettere mai di accompagnare il nostro sistema culturale.



E allora via, a ricordarci con la lacrimuccia di Eddie Lang e Louis Prima, a salmodiare l’ormai insostenibile mantra che "i jazzisti italiani non hanno ormai nulla da invidiare a quelli americani", a vantare le presenze di pubblico in Festival che fanno cassetta con nomi che con il jazz non hanno nulla a che vedere e così via…

…in un sistema che continua a non accorgersi dello stato di forte frustrazione che colpisce una gran parte degli artisti che nel carrozzone del "prodotto tipico" non sono saliti e non vogliono salire e che invece cercano di fare la propria musica – a volte assai più interessante e urgente di altre più celebrate – tra mille difficoltà, la sempre crescente mancanza di spazi adeguati e di strumenti promozionali che consentano loro di condividere la musica in modo più efficace.

L’Orchestra del Titanic continua allegra a suonare – con Arbore clarinetto solista – mentre del destino di chi sta naufragando laggiù in terza classe (e parlo di un intero sistema culturale e economico, non solo dei musicisti) non interessa a nessuno.

Come della più elementare verità storica sulla nascita del jazz, d’altronde, non è vero caro Presidente di Umbria Jazz? Lo diceva anche il titolo di una sua fortunata trasmissione, ricorda?

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