L'elettronica sotto casa

L'ordinario racconto di Club To Club 2013 a Torino

Recensione
pop
Forse il modo peggiore per godersi un festival, specie uno di elettronica, è quello del cittadino, dell’“indigeno”, diciamo così. Costretto a non rompere la propria routine, il cittadino – in questo caso diremo “il torinese” – giustifica involontariamente l’adagio secondo cui nessuno sarebbe profeta a casa propria. Così, se paragonati a quelli di un Sònar o di un Primavera, i miei ricordi dei giorni di Club to Club rientrano nel dominio di una imbarazzante ordinarietà, fatta di lavoro a casa e spesa al mercato di Piazza Madama, in un pezzo di San Salvario dove durante l’anno non è raro imbattersi in qualcuno della direzione artistica del festival… Così capita di incontrare al supermercato sotto casa una conoscente che sta andando al Festival, il sabato poco prima dell'inizio della serata. Sta andando al Lingotto, mi spiega, e ha - appunto - comprato della vodka allo scopo. «E tu? Che fai?». «Io? Ho comprato le zucchine...»

Ci siamo, insomma, abituati bene in questi anni, e certe cose – il programma di C2C, avere gente come Four Tet e Kode9 sotto casa, ad esempio – tendiamo a darle per scontate o dovute. Il vantaggio è, naturalmente, che nonostante qualche ritrosia tipicamente torinese, si finisce per affezionarsi anche di più. Club To Club intanto è cresciuto ed è diventato grande – guadagnandosi stima e riconoscimenti anche oltre le mura cittadine, e i confini italiani – mentre noi lo seguivamo in questo modo, da cittadini un po’ pigri, senza troppi estremi.

Anche nei riti sociali torinesi Club To Club è ormai stato codificato: a partire dal suo primo atto, l’ambitissima inaugurazione al Teatro Carignano, sold out anche quest’anno. La luce luminosissima degli stucchi dorati della sala è il luogo ideale dove studiarsi, prima che si spengano le luci per i tre giorni successivi e cominci il festival vero. Tutti si guardano fra loro: ci sono gli invitati degli sponsor, che scelgono giacche sgargianti posti centrali in cui possano essere viste al meglio. Ci sono i fan della prima ora, che identificano i macchinari sul palco e si scambiano aneddoti sui passati concerti (io sono fra questi: «ti ricordi quella volta di Apparat…»). Ci sono – segno del festival che cresce – giapponesi spaesati che si informano sugli scioperi degli autobus, inglesi presi bene, addirittura (dicono) americani…



E poi – nel caso specifico – c’è James Holden. In passato, su alcune serate al Teatro Carignano ci si era interrogati: non tutto funziona in un teatro, e non basta voler far entrare musica da ballo (perdonate le semplificazioni) in una sala con le sedie per renderla da ascolto - questo indipendentemente dalla qualità della musica stessa. Ma nel caso di Holden, tutto gira al meglio: la sua musica, pur quasi sempre costruita su beat costanti, contiene una tale qualità di colori da renderla perfettamente adeguata a ogni tipo di ascolto: la matrice, molto spesso, sembra essere quella di una psichedelia elettronica indebitata con il kraut rock: loop di synth analogici, vari filtri ed effetti dal sapore perlopiù vintage e “prog”: ma l’essere progressivi non riguarda soltanto l'occasionale omaggio ad un suono retrò e un certo modo di trattare le poliritmie e gli incastri ritmici: in questo, l’orizzonte sembra essere quello dei King Crimson anni Ottanta e Robert Fripp, o la sua controparte contemporanea, quella del rock matematico, alla Battles. Riguarda piuttosto un’attitudine a sperimentare, a mescolare gli ingredienti in modo nuovo, a giocare con i cliché: tanto che fra un synth e l’altro affiorano suoni a 8 bit (forse Casio?), trattati allo stesso modo, come fantasie da un videogioco anni Ottanta. O – in uno dei brani più belli dell’ultimo disco, The Inheritors, “The Caterpillar’s Intervention”, un sax simil-free (brano che peraltro pare un remix, o una cover, proprio di un pezzo dei primi Battles, “Atlas”). Forse perché in teatro, o per “umanizzare” il tutto, Holden affida parte della ritmica ad un batterista “vero”: scelta che funziona solo a tratti, o per mancanza di intesa o per eccessiva rigidità del collaboratore, che si limita ad assecondare le implicazioni ritmiche nei loop di Holden senza inventarsi molto, e senza arricchire più di tanto un panorama sonoro già di per sé sgargiante.



Lo stesso brano “dei Battles” (che peraltro può facilmente essere trasfigurato come un ritmo di tarantella: chissà se Holden ci ha mai pensato…) chiude il dj set dello stesso Holden la sera seguente alle OGR. Stessi ingredienti ma virati sui tempi e la continuità di un dj set, e applicati anche ai pezzi di altri: si infilano suggestioni funk, voci, e altro. Gli spazi psichedelici di Holden fanno da contraltare alla cupa apertura di serata, affidata a The Haxan Cloack. Il musicista inglese è, insieme a Holden, una delle cose migliori sentite a C2C 2013: frequenze spettrali, drones, suggestioni dub, folate e crescendo che non si risolvono mai ma affogano nel rumore bianco, o su bassi ribollenti.



Davvero un altro pianeta rispetto al set degli italiani Niños Du Brasil, con la loro commistioni di ritmi brasiliani e scansioni dance. Splendidi i visual, con una Italia-Brasile d’antan che affiora qui e là; meno efficace la musica: il gioco sui ritmi, sebbene serva al meglio la causa del ballabile (anche grazie alle percussioni suonate live) non sembra andare molto oltre ad un “raddrizzamento” delle poliritmie afrobrasiliane, almeno per lunghi tratti dello show, e finisce per impoverire più che arricchire gli “originali”. Non a caso, il progetto diventa decisamente più interessante quando si abbassa la temperatura e la velocità e si va verso atmosfere più minimali. Chiusura con l’epico Jon Hopkins, ideale ponte verso il sabato sera al Lingotto.

Avevo incontrato i Fuck Buttons recentemente, allo scorso Primavera Sound: di fronte al pubblico del Lingotto il duo forse punta – almeno nella fase iniziale del set – più a far ballare che a sconvolgere con il suono. Ma l’attitudine “nichilista” (rubo la definizione dal comunicato stampa, ma è davvero perfetta) emerge, poco a poco: violenza, squarci di rumore bianco, beat portati al massimo del guadagno al limite (e oltre) della distorsione. Un approccio hardcore al materiale musicale che tocca vette di sublime violenza. Nota a parte per i visual – genialmente fuori contesto: paiono video musicali di synth pop da tv locale primi Novanta, con le sagome dei musicisti ritagliate su paesaggi da salvaschermo, e effetti di transizioni piuttosto kitsch. Percorso inverso per Four Tet, che apre il suo set con una lunga sequenza senza beat, di minimalismo elettronico, fino ad una squassante apertura: uno dei momenti più alti della serata.



Segue Diamond Version, duo composto da Byetone e Alva Noto: il progetto va verso una “post-techno” che in fondo suona come una techno piuttosto rigorosa e minimale, senza compromessi, occasionalmente attraversata da quelle scariche di suoni digitali “puri” che sono il marchio di fabbrica di Noto. Perfettamente a tema il seguito, con i berlinesi Modeselektor che alleggeriscono l'atmosfera e scatenano definitivamente il pubblico. Io – personalmente – mi riposo ascoltandoli seduto su uno dei subwoofer lato palco, di fronte alle transenne: il che – in realtà – non fa che aumentare l’effetto ipnotico del tutto, oltre a massaggiare piacevolmente le terga.

Intanto, la torrida Sala Rossa aveva già offerto alcune delle sue proposte migliori: i bassi profondissimi di Sherwood & Pinch e il dj set di Kode9. E poi ancora, Machinedrum con chitarra e batterista (curiosa proposta la sua, con grandi spunti, momenti epici e “cantabili”, e qualche caduta in uno stile “da lounge” che fa molto revival anni Novanta). O ancora l’inquietante Andy Stott, che apre con voci distorte e drones quasi-metal… Roba intensa, se ascoltata alle cinque del mattino…

E poi, naturalmente, l’ordinario ritorno a casa: niente after party (sono comunque le sei), neanche il brivido della navetta notturna. Bicicletta da Lingotto al centro, come in un normalissimo giorno di lavoro.

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