Saalfelden 2 | Improbabili follie, perdonabili smarrimenti
Il sabato sera secondo Saalfelden: da Leo Smith all'afrobeat
Recensione
jazz
È tutto un confrontarsi le previsioni del tempo sugli smartphone, la mattina a Saalfelden. Qui il tempo cambia anche piuttosto radicalmente nel corso di una giornata ed è una competizione subdola, questa dei meteo, dove non sai se hai consultato il sito più preciso, o se è meglio portare la giacca a vento per nulla... Questa seconda giornata di festival parte soleggiata (e lo rimarrà fino a una torrenziale pioggia serale) e pubblico, stampa, operatori, musicisti riappaiono un po’ alla spicciolata nelle vie cittadine.
A dare a tutti il buongiorno sono due maestri come Uri Caine e Han Bennink, che fanno esplodere la piccola sala del centro Nexus con il loro avant-swing. Monk e Mozart, le eruzioni improvvisative più convulse e il ragtime trovano posto in questo duo (lo avevamo già ascoltato a Bergamo Jazz, ma qui ci sembra ancora più in forma) che è un vero e proprio monumento al jazz. Certo, le esilaranti gag di Bennink sono ormai parte del suo repertorio, ma al batterista olandese, ormai ultrasettantenne, basta un rullante o un tavolino per fare una musica più vera, coerente, emozionante di tanti suoi giovani colleghi dal set di tamburi sofisticato. Caine è in questo senso un partner ideale: giocoso, enciclopedico, capace di far cantare cluster che sembrerebbero cadere sulla tastiera un po’ casualmente e di tenere l’istrionismo del collega dentro una dialettica di pura essenza jazz. Ovazioni, manco a dirlo.
Sul palco principale apre la Jacob Fred Jazz Odyssey, ampia formazione dai toni postmodern, guidata dalla steel guitar di Chris Combs. Gli impasti sono colorati e intelligenti e fanno risaltare l’apporto di solisti come gli stessi Bernstein e Skerik (praticamente rimasti sul palco dalla sera prima!) o il sassofonista Peter Apfelbaum, ma il tutto non mi convince troppo, forse complessivamente un po’ piatto.
Ho parecchie perplessità anche sul solo di John Medeski. Popolarissimo con il trio Medeski, Martin & Wood, il musicista ha dalla sua un grande senso ritmico e una capacità di fare danzare le frasi, ma dare senso e coerenza a un'ora e un quarto di piano solo è altra cosa. Tra momenti lirici e squarci blues, il pianista mi è sembrato più che altro lontano dal dare al suo recital un senso che andasse al di là del ben suonare e dell’alternanza di atmosfere, alla fine un po’ noiosa.
Nel cuore del pomeriggio arriva il progetto sulla carta più improbabile e pazzo del festival: a Franz Hautzinger e Keiji Haino si aggiungono il basso di Jamaladeen Tacuma e la batteria di Hamid Drake. Si incontrano per la prima volta, che accadrà? Prevarrà il funk? Il noise? Il tempo di studiarsi un attimo e ognuno fa quello che sa: Tacuma e Drake si cercano e appena possono innescano grooves contagiosi. Haino si contorce alla chitarra (cade pure dalla sedia!) e alza i volumi come ci si aspetta da lui. In questo "humus" Hautzinger non ha spazio per i suoi consueti soffi e borbottii e si muove invece su traiettorie che rimandano al Miles elettrico. Il tutto prende così una deriva da jam psych/free/funk che non ha molto senso al di là dell’originalità degli accostamenti e dell’incontestabile personalità dei singoli. Ci si diverte parecchio se ci si abbandona all’improbabilità della situazione, i volumi salgono ancora di più, Haino canta e schitarra come se gli altri non ci fossero, ma l’energia è possente e l’unico problema dopo un’ora e più di concerto è come trovare il finale. Un paio di tentativi vanno a vuoto, con Tacuma che riaccende le braci del ritmo, poi un gesto inequivocabile del manico del suo basso decreta un silenzio rotto solo dagli applausi e dalle orecchie che ti fischiano per un bel po’ di minuti.
Le nubi si addensano su Saalfelden, ma il pubblico è già assiepato nel palazzo dei congressi per quella che si annuncia come una delle proposte più attese, con Wadada Leo Smith e il suo progetto Ten Freedom Summers. La sala è praticamente già piena che i musicisti stanno ancora finendo il soundcheck: sul palco c’è il Golden Quartet (con Anthony Davis, John Lindberg e Pheeroan akLaff), un quartetto d’archi e un’arpa, per eseguire parte del colossale e bellissimo lavoro che il trombettista ha dedicato alla storia dei diritti civili della gente nera negli Stati Uniti. Il disco è bellissimo, le partiture dense e interessanti, ma il jazz è un animale strano e può anche succedere che qualche volta le cose non girino nel verso giusto. Succede. L’inizio è incerto, qualche sbavatura crea subito tensione e l’amalgama tra il quartetto "jazz" e gli archi tarda a arrivare: dapprima giustapposti, i due organici si fondono solo nella seconda parte, ma la sensazione è che la musica non riesca mai a decollare. Smith, nel tentativo probabilmente di rendere più compatto il tutto, prende sul palco decisioni repentine che spiazzano alcuni musicisti. Si sbraccia, corre a girare pagine sui leggi e progressivamente si dedica sempre meno alla sua tromba per cercare una sintonia tra tutti che purtroppo sembra non arrivare. Alla fine, la sua faccia è piuttosto eloquente, nonostante i molti applausi (ovviamente sacrosanti per un vero gigante della musica afroamericana come lui), e in platea si rimpiange che Smith non abbia voluto provare soluzioni più semplici (aggiungendo al Golden Quartet solo un’altra batteria, come successo felicemente in altri festival), o abbia avuto più tempo per fare respirare le sue partiture con i polmoni più rilassati. Anche l’apporto video non era all’altezza della situazione, con immagini grafiche che si alternavano a casuali primi piani in tempo reale dei musicisti. Peccato, ma come dicevamo, nella musica che si fa al momento la cosa ci può stare e non inficia la statura immensa del musicista e del progetto.
Dopo tanti concerti consecutivi, è fisiologico fare un break e che qualcosa si segua con meno attenzione: nel mio caso è accaduto con il trio del pianista finlandese Iiro Rantala, formazione di sapore cameristico con violino e violoncello che ho ascoltato solo in piccola parte e che mi ha destato un’impressione di calligrafica piacevolezza.
Meglio tenere le forze per i dieci scatenati musicisti di Zion80 del chitarrista Jon Madof, festosi alchimisti del groove che mescolano musica ebraica e afrobeat. Nulla di troppo complicato, ma la cosa funziona: il basso di Shanir Blumenkranz disegna linee gommose ben assistito da basso e batteria; tre chitarre elettriche girano la manopola dell’energia al massimo e la sezione fiati (forte di musicisti di peso come Matt Darriau, Briggan Krauss e la brava altista Sarah Manning) è coesa e danzante. Fuori piove a dirotto, ma nonostante l’ora tarda sul palco splende un sole accecante e le ossa di tutti mettono in stand-by la stanchezza per dimenarsi (nei limiti che la sedia e la decenza impongono) ai temi della band. Dopo tutto è sabato sera, no?
A dare a tutti il buongiorno sono due maestri come Uri Caine e Han Bennink, che fanno esplodere la piccola sala del centro Nexus con il loro avant-swing. Monk e Mozart, le eruzioni improvvisative più convulse e il ragtime trovano posto in questo duo (lo avevamo già ascoltato a Bergamo Jazz, ma qui ci sembra ancora più in forma) che è un vero e proprio monumento al jazz. Certo, le esilaranti gag di Bennink sono ormai parte del suo repertorio, ma al batterista olandese, ormai ultrasettantenne, basta un rullante o un tavolino per fare una musica più vera, coerente, emozionante di tanti suoi giovani colleghi dal set di tamburi sofisticato. Caine è in questo senso un partner ideale: giocoso, enciclopedico, capace di far cantare cluster che sembrerebbero cadere sulla tastiera un po’ casualmente e di tenere l’istrionismo del collega dentro una dialettica di pura essenza jazz. Ovazioni, manco a dirlo.
Sul palco principale apre la Jacob Fred Jazz Odyssey, ampia formazione dai toni postmodern, guidata dalla steel guitar di Chris Combs. Gli impasti sono colorati e intelligenti e fanno risaltare l’apporto di solisti come gli stessi Bernstein e Skerik (praticamente rimasti sul palco dalla sera prima!) o il sassofonista Peter Apfelbaum, ma il tutto non mi convince troppo, forse complessivamente un po’ piatto.
Ho parecchie perplessità anche sul solo di John Medeski. Popolarissimo con il trio Medeski, Martin & Wood, il musicista ha dalla sua un grande senso ritmico e una capacità di fare danzare le frasi, ma dare senso e coerenza a un'ora e un quarto di piano solo è altra cosa. Tra momenti lirici e squarci blues, il pianista mi è sembrato più che altro lontano dal dare al suo recital un senso che andasse al di là del ben suonare e dell’alternanza di atmosfere, alla fine un po’ noiosa.
Nel cuore del pomeriggio arriva il progetto sulla carta più improbabile e pazzo del festival: a Franz Hautzinger e Keiji Haino si aggiungono il basso di Jamaladeen Tacuma e la batteria di Hamid Drake. Si incontrano per la prima volta, che accadrà? Prevarrà il funk? Il noise? Il tempo di studiarsi un attimo e ognuno fa quello che sa: Tacuma e Drake si cercano e appena possono innescano grooves contagiosi. Haino si contorce alla chitarra (cade pure dalla sedia!) e alza i volumi come ci si aspetta da lui. In questo "humus" Hautzinger non ha spazio per i suoi consueti soffi e borbottii e si muove invece su traiettorie che rimandano al Miles elettrico. Il tutto prende così una deriva da jam psych/free/funk che non ha molto senso al di là dell’originalità degli accostamenti e dell’incontestabile personalità dei singoli. Ci si diverte parecchio se ci si abbandona all’improbabilità della situazione, i volumi salgono ancora di più, Haino canta e schitarra come se gli altri non ci fossero, ma l’energia è possente e l’unico problema dopo un’ora e più di concerto è come trovare il finale. Un paio di tentativi vanno a vuoto, con Tacuma che riaccende le braci del ritmo, poi un gesto inequivocabile del manico del suo basso decreta un silenzio rotto solo dagli applausi e dalle orecchie che ti fischiano per un bel po’ di minuti.
Le nubi si addensano su Saalfelden, ma il pubblico è già assiepato nel palazzo dei congressi per quella che si annuncia come una delle proposte più attese, con Wadada Leo Smith e il suo progetto Ten Freedom Summers. La sala è praticamente già piena che i musicisti stanno ancora finendo il soundcheck: sul palco c’è il Golden Quartet (con Anthony Davis, John Lindberg e Pheeroan akLaff), un quartetto d’archi e un’arpa, per eseguire parte del colossale e bellissimo lavoro che il trombettista ha dedicato alla storia dei diritti civili della gente nera negli Stati Uniti. Il disco è bellissimo, le partiture dense e interessanti, ma il jazz è un animale strano e può anche succedere che qualche volta le cose non girino nel verso giusto. Succede. L’inizio è incerto, qualche sbavatura crea subito tensione e l’amalgama tra il quartetto "jazz" e gli archi tarda a arrivare: dapprima giustapposti, i due organici si fondono solo nella seconda parte, ma la sensazione è che la musica non riesca mai a decollare. Smith, nel tentativo probabilmente di rendere più compatto il tutto, prende sul palco decisioni repentine che spiazzano alcuni musicisti. Si sbraccia, corre a girare pagine sui leggi e progressivamente si dedica sempre meno alla sua tromba per cercare una sintonia tra tutti che purtroppo sembra non arrivare. Alla fine, la sua faccia è piuttosto eloquente, nonostante i molti applausi (ovviamente sacrosanti per un vero gigante della musica afroamericana come lui), e in platea si rimpiange che Smith non abbia voluto provare soluzioni più semplici (aggiungendo al Golden Quartet solo un’altra batteria, come successo felicemente in altri festival), o abbia avuto più tempo per fare respirare le sue partiture con i polmoni più rilassati. Anche l’apporto video non era all’altezza della situazione, con immagini grafiche che si alternavano a casuali primi piani in tempo reale dei musicisti. Peccato, ma come dicevamo, nella musica che si fa al momento la cosa ci può stare e non inficia la statura immensa del musicista e del progetto.
Dopo tanti concerti consecutivi, è fisiologico fare un break e che qualcosa si segua con meno attenzione: nel mio caso è accaduto con il trio del pianista finlandese Iiro Rantala, formazione di sapore cameristico con violino e violoncello che ho ascoltato solo in piccola parte e che mi ha destato un’impressione di calligrafica piacevolezza.
Meglio tenere le forze per i dieci scatenati musicisti di Zion80 del chitarrista Jon Madof, festosi alchimisti del groove che mescolano musica ebraica e afrobeat. Nulla di troppo complicato, ma la cosa funziona: il basso di Shanir Blumenkranz disegna linee gommose ben assistito da basso e batteria; tre chitarre elettriche girano la manopola dell’energia al massimo e la sezione fiati (forte di musicisti di peso come Matt Darriau, Briggan Krauss e la brava altista Sarah Manning) è coesa e danzante. Fuori piove a dirotto, ma nonostante l’ora tarda sul palco splende un sole accecante e le ossa di tutti mettono in stand-by la stanchezza per dimenarsi (nei limiti che la sedia e la decenza impongono) ai temi della band. Dopo tutto è sabato sera, no?
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