Primavera Sound 2 | Il nuovo e l'usato sicuro

A Barcellona arrivano i Blur, The Knife e James Blake

Recensione
pop
Uno va al Primavera anche per scoprire band nuove, per vedere dal vivo le novità più chiacchierate della stagione o per intercettare tour che di questi tempi non passano dall'Italia. Poi, fra sovrapposizioni infelici e concerti ai due estremi del Parc del Fórum - tempo di percorrenza fra la folla, una decina di minuti minimo - si scommette su qualcosa, e talvolta si perde. Per Daniel Johnston, ad esempio, tocca fare la coda per prendere il biglietto e la coda per entrare all'auditorium: difficile giudicare il concerto - Johnston non pare in forma, la band è di onesti turnisti, e poco più. Il pubblico impazzisce, ma rimane l'impressione che sarebbe impazzito qualunque cosa fosse successa sul palco: altre riflessioni andrebbero fatte, con calma, sul fenomeno Daniel Johnston. Per ora diremo che Johnston è oltre le categorie estetiche, e lo si prende così...

Muoversi fra i concerti del venerdì sera ricorda più uno zapping sfrenato, e di alcuni show rimane poco più che un'impressione, o un vago ricordo. È così per Kurt Vile and the Violators, per i Django Django, o per i Local Natives, che attirano intorno al piccolo ed esclusivo palco Pitchfork talmente tanta gente che, dal fondo, si sente poco o nulla: quindi rinuncio, e scappo a sentire l'ultimo pezzo dei Tinariwen. Già visti e rivisti, e pur rimaneggiati nella formazione, (ora più minimale di un tempo, con solo una chitarra, basso e percussioni oltre alle voci), ancora stupiscono per la potenza e l'unicità del loro sound (pur ampiamente imitato), che anche in un contesto "strano" come quello del Primavera funziona perfettamente. Sarebbe da aprire un capitolo etnografico a parte su come il pubblico indie-rock ha deciso che questa musica debba essere ballata: in una specie di transe a corpo sciolto, piuttosto grottesca...

Parlando di ballo: la serata si chiude con i The Knife, sui quali scommetto (tralasciando un gruppo che pure amo molto, come i Titus Andronicus) incuriosito dalle voci sul loro ultimo show per il tour di Shaking the Habitual. Di musica c'è davvero poco. Almeno: di musica dal vivo. Nessuno suona nulla per buona parte dello show, se si esclude una lunga intro spettrale con i "musicisti" avvolti nel fumo, in cui non è dato capire chi o cosa stia producendo suono. Si supplisce con delle surreali coreografie, in un camp a metà strada fra Hair e Priscilla, la regina del deserto, con i due Knife mescolati a cinque o sei ballerini. L'operazione in sé ha del genio, soprattutto all'interno del circuito in cui è calata; alcuni momenti, quelli meglio giocati con le luci, sono di grande impatto. Ma, in piedi nel pubblico e senza vedere bene il palco, il tutto finisce con l'essere decisamente noioso e un po' oltre il limite tollerabile di un sano kitsch.

Meglio, molto meglio, il nuovo show live (davvero live) di James Blake, dopo un lungo apprendistato come dj set la scorsa stagione. Blake si fa accompagnare da un batterista e da un chitarrista (con il suono della chitarra totalmente trasfigurato e assorbito dal panorama elettronico creato da Blake). Toccante, intimo, umano e magistralmente gestito fra aperture di laceranti bassi dubstep (ballabilissime!) e momenti lirici (il classicone "There's a Limit to Your Love" arriva a metà set), il set funziona perfettamente anche nei grandi spazi del palco Primavera: in un piccolo club, probabilmente, funzionerebbe ancora meglio. Blake non è una bufala ma un talento genuino, e lo conferma dal vivo.

Infine, i classici: un po' spenti - o arrugginiti - i The Jesus and The Mary Chain, ci pensano i Blur a risollevare il morale. Volendo qualche certezza, tocca rinunciare agli Swans (il clash peggiore, forse) e all'incognita Goat. Per fortuna i Blur fanno quello che devono fare. Partenza con "Boys and Girls", chiusura con i bis di "The Universal" e "Song no. 2"; in mezzo, tutte-proprio-tutte le canzoni-classiche-che-si-cantano a squarciagola: "Coffee and Tv", "Country House" (con la sezione fiati), "Tender" e via così. Se si fanno le reunion, le si fanno bene - con buona pace dei discorsi sulla musica nuova e la retromania. Eppure, per quanta nostalgia ci sia, l'immagine che si ha dei Blur oggi è quella di una band ancora viva, con un Damon Albarn iperattivo e con la chitarra di Coxon che suona "nuova" e innovativa come ai tempi che furono - forse, con un po' di distanza critica data dal tempo, anche più nuova.

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