Babel Med 2013 | I suoni di Marsiglia

Il meglio dalla fiera di world music francese

Recensione
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A Marsiglia c’è un buon pezzo del mondo che gira intorno alla world music. Che, di questi tempi, è in buona parte rappresentato dall’industria del live, con una certa penuria di etichette e di giornalisti.
Babel Med, la fiera che da nove anni si tiene ai Docks des Suds, nel mezzo di un quartiere portuale in corso di riqualificazione, raccoglie operatori in buona parte dal mondo francofono; anche – ci spiegano in conferenza stampa – quei “piccoli compratori” e “piccoli programmatori” che non organizzano molti eventi, ma che sfruttano la fiera per incontrarsi. La crisi, da questo punto di vista, probabilmente aiuta la “piccola” Babel Med rispetto a pesi massimi come Womex o Midem.

Compaiono poi, in maniera crescente in questi ultimi anni, molti operatori da nuovi mercati che, auspicabilmente, potranno sfruttare la difficile congiuntura per aprirsi al mondo: è il caso della rete che raggruppa le nuove fiere del continente africano, nella speranza – che condividiamo - che i “produttori di world music” possano ora cominciare a vendersela da soli.
Il prossimo test sarà ad aprile 2013 a Capo Verde, dove un ministro-musicista ha politicamente promosso e costruito, con la partnership del Womex, la prima edizione dell’Atlantic Music Expo. Mario Lucio, il ministro della cultura di un Paese che ha meno abitanti di Genova ma una percentuale di musicisti di livello vicina a quella islandese, ha presentato la sua creatura a Marsiglia, insieme al “padre” di Lusafrica (e scopritore di Cesaria Evora) José Da Silva. Una delle poche risorse di Capo Verde – ha spiegato Lucio – è la musica, ma ciononostante ai capoverdiani mancano le possibilità anche solo – ad esempio - di acquistare strumenti senza andare in Europa, o in Brasile. Si tratta ora di sfruttare le potenzialità geografiche dell’arcipelago, le stesse che ne fecero il porto di passaggio per la tratta atlantica degli schiavi. Se l’immagine del “mare” come spazio comune di scambio si è spesso applicata al Mediterraneo, l’Atlantico e le sue musiche hanno molte potenzialità non ancora espresse.

C’era poi molta musica da ascoltare, naturalmente. E l’ascolto delle “musiche del mondo” a Marsiglia è davvero una disposizione mentale, oltre che un fatto contingente: in una friggitoria della Plaine può così capitare di imbattersi in una versione di “Nina ti te ricordi” di Gualtiero Bertelli, e passando per il mercato di ascoltare rap tunisino, cumbia e canzone francese, il tutto con grande naturalezza. Naturale dunque che le produzioni originali messe su per Marsiglia capitale europea della cultura cercassero di esaltare questa attitudine “sincretica” all’ascolto, che è della città. Molto rap, molta Africa Mediterranea, qualche cosa già sentita - “Wilaya 49”, con i Watcha Clan – e qualche buona idea, come l’accostamento di quattro beatboxers (Under Kontrol) con un tentetto di fiati nel progetto “Watt a Nine Brass Boom!”.

Con l’esclusione delle produzioni originali, le cose migliori ascoltate a Babel Med 2013 rientrano però in una diversa accezione del concetto di “musiche del mondo”. E non è un caso che all’apice del concerto migliore ascoltato, quello di Baloji, il cantante belga di origine congolese si sia lanciato in una invettiva, sostenendo che come la sua non fosse “world music”, ma musica che si fa “chez nous”, da noi. Baloji, che arriva a Marsiglia sull’onda lunga della promozione del suo Kinshasa Succursale (Crammed 2011) è probabilmente destinato a diventare un nome importante del circuito e non solo, come confermano le recenti partecipazioni a grandi festival internazionali (per dire, il South by Southwest 2013). Nato in Congo, trasferitosi in Belgio da ragazzo, con una storia familiare e personale piuttosto complicata, Baloji ha cominciato con il rap e si è lentamente e progressivamente mosso in direzione delle proprie radici personali e musicali. Il suono del disco era eclettico, e rispecchiava una lavorazione “itinerante”, completata registrando in Congo con numerosi musicisti. Dal vivo, grazie ad una band di livello, l’accostamento delle rime appuntite e brillanti del giovane “rapper” con un sound elettrico, fra funk e rumba congolese, funziona benissimo. Soprattutto nella parte di rumba: con "L'orchestre de la Katuba" di Baloji suona anche Dizzy Mandjeku, già chitarrista degli OK Jazz di Franco... Da tenere d’occhio.



Discorso simile – “world music per caso” – vale per i libanesi Mashrou’ Leila, fra i gruppi di punta della scena underground di Beirut. Se il termine “indie rock” indica anche un sound, allora i libanesi sono indie-rock, per la centralità della chitarra elettrica e per un certo modo di usare i synth - a cui aggiungono però il violino con un ruolo da protagonista. Con testi aspri e satirici, che affrontano apertamente il tema – ad esempio – dell’omosessualità (il cantante Hamed Sinno è gay dichiarato), i Mashrou’ Leila sono forse troppo “radicali” per una parte dei festival internazionali che si occupano di world music, ancora alla ricerca dell’“esotico” più che dell’“altro”. Rimangono, al di là dei generi, una delle migliori band ascoltate negli ultimi tempi.



Nella categoria degli “esotisti” rientra il pur valido progetto di Vinicio Capossela sulla musica rebetika. L’idea del cantautore di riarrangiare le sue canzoni con sonorità greche, grazie a musicisti esperti di repertorio rebetiko (su tutti il virtuoso di bouzouki Manolis Pappos) funziona; funziona meno la riproposta di altri brani (“Misirlou” su tutti). E, indipendentemente dai risultati artistici, rende perplessi la performance di Capossela, che fa ampio uso di cliché per diffondere una cultura musicale marginale e appartenente al passato (non è certo musica della Grecia di oggi): la giacca infilata con una sola manica come il mangas, le pose, il baglama suonicchiato un po’ per finta…
Ciò che non convince, soprattutto, è il sottotesto del progetto che sembrerebbe avallare l’equazione “greco = rebetiko” – che varrebbe all’incirca quella “italiano = canzone napoletana”, e come corollario “bouzoki = mandolino”. Fortunatamente, la qualità delle canzoni e dei musicisti salva un progetto costruito su fondamenta instabili…



Non mancava, come sempre da qualche anno a questa parte, la delegazione pugliese: sul palco dei Docks è salita, in rappresentanza, Rosapaeda (promossa però dai torinesi di Musicalista). Una grande voce e una grande raffinatezza anche nel reinventare i “classici” (bella la “Tammuriata nera”, ad esempio). Il gruppo, che fa della sezione fiati il punto forte, evita con attenzione i cliché del genere "taranta", e meno male: e se l'accoppiata tamburello/batteria garantisce il necessario apporto ritmico e il tiro, si sente - in alcuni passaggi - la mancanza di una chitarra, meglio se elettrica. Saranno pure sovraesposti, questi pugliesi, ma oltre al merito di esserci riusciti (a sovraesporsi), va loro reso atto di saper portare in giro progetti musicali all’altezza delle situazioni.



Menzioni in ordine sparso per il trio di virtuosi québécois De Temps Antan, che propone canzoni e musica da ballo ad una velocità davvero progressiva; per i tamarri bosniaci Dubioza Kolektiv, potenti e divertenti anche se quel genere di musica, fra il turbo folk e gli Ska-P, era usurato già dieci anni fa, e con il tempo non è certo migliorato. E ancora per la diva guineana Sia Tolno, di scuderia Lusafrica: voce e carisma incredibili, meno convincente la band che si appoggia un po’ troppo a cliché funk, con alcune scelte di suono pure discutibili. Da rivedere.

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