Diario inglese 1 | London Jazz Festival

Wadada Leo Smith con John Tilbury, Ken Vandermark con Ab Baars e Paal Nilssen-Love

Recensione
jazz
Viaggiare verso l'Inghilterra in novembre porta sempre con sé una certa ansia meteorologica ed è con una certa sorpresa che trovo ad accogliermi una Londra soleggiata e climaticamente confortevole.
I primi due giorni del mio piccolo tour inglese sono dedicati a qualche ora di vacanza (che include la splendida mostra William Klein/Daido Moriyama alla Tate Modern) e a un paio di concerti nel ricchissimo programma del London Jazz Festival.
In cartellone c'è di tutto, da Esperanza Spalding a Sonny Rollins, da Keith Tippett a Herbie Hancock, ma mi incuriosisce di più il duo tra la tromba di Wadada Leo Smith e il pianoforte di John Tilbury, nella grande – e un po' austera – sala del Bishopsgate Insitute.

Tra il pubblico scorgo e saluto amici musicisti come Steve Beresford o Phil Minton, che mascherano la sorpresa di vedermi "fuori sede" con tipica e un po' ironica flemma britannica. Posso anche finalmente conoscere di persona e chiacchierare con Hamish Dunbar, il direttore di quel Café Oto che si sta affermando come una delle realtà londinesi più vivaci per la musica imrpovvisata e creativa.

Wadada e Tilbury: due straordinari esploratori musicali che provengono da due tradizioni piuttosto diverse, ma l'abbinamento (già tentato qualche tempo fa a Angelica) è certamente stimolante, data la reciproca sensibilità creativa. Si parte con un solo di Smith, composto da brevi monologhi che attraversano territori timbrici molto differenti, graffiati da aspre accensioni o ammorbiditi da dolcissimi linee con lo strumento sordinato. Il successivo monologo di Tilbury è per certi aspetti ancora più magico, tutto giocato su incantevoli sottigliezze timbriche, piccole frasi o combinazioni accordali al pianoforte (preparato solo in parte) che risuonano come emozionanti haiku nella grande sala. Il duo è infine un po' più prevedibile: impreziosito da un mutuo rispetto e da un rapportarsi con lo spazio sonoro particolarmente calibrato, si muove su grammatiche consolidate e forse senza mai osare forzare le rispettive certezze. Comunque affascinante e seguito da molti applausi.

La sera successiva, con la preziosa guida e compagnia di una delle più originali vocalist inglesi, Elaine Mitchener, mi sposto invece verso la zona di Dalston e Hackney: al jazz club Vortex il Festival prevede il trio composto da Ken Vandermark, Ab Baars e Paal Nilssen-Love.

Immagine rimossa.

Attivo da molti anni, il duo tra il sax (e clarinetto) di Vandermark e la batteria di Nilssen-Love è già tra le formazioni più interessanti tra quelle nate sull'asse Chicago-Scandinavia, e l'inserimento di un altro clarinettista/sassofonista come Baars ha il grande pregio di riuscire a fornire alla musica ulteriori livelli di senso e di strategia improvvisativa. I due set al Vortex sono in questo senso significativi e spesso entusiasmanti: l'abituale furore dionisiaco del duo si apre a momenti di esplorazione timbrica e lirica inediti e in questo senso le possibilità di combinazione tra gli strumenti a ancia offrono al triangolo una tavolozza piuttosto vasta. L'ironia olandese di Baars smussa in modo elegante la caparbietà del gesto sonoro di Vandermark (e viceversa la grande coerenza del musicista americano evita ogni compiacimento) e fa emergere in modo ancora più sorprendente la danzante poliritmia della batteria. Tra i tanti gruppi di cui Vandermark fa parte, questo è uno dei più emozionanti e il clima raccolto del club ha favorito certamente la forte condivisione con il pubblico (annotiamo anche qui poche presenze femminili e un'età media piuttosto avanzata, un trend condiviso un po' in tutta Europa, ma su cui andrà fatta presto una riflessione, no?)

Torno verso il centro di Londra nella notte, domani mi aspetta un treno verso nord: destinazione Festival di Huddersfield. [continua...]

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