Cartoline da Saalfelden
Il meglio del jazz di oggi nella "visione" del festival austriaco
Recensione
jazz
Dal basso dei suoi quindicimila abitanti è la piccola capitale del jazz europeo. Una deliziosa cittadina tutta gerani e balconi adagiata in una verdissima valle, da qualche parte tra Innsbruck e Salisburgo. Si chiama Saalfelden e ogni anno, da trentatré anni, ospita una delle più imponenti e importanti rassegne del Vecchio Continente. La differenza, rispetto alla media, e rispetto alla desolante pochezza dell’offerta italiana, la fanno una direzione artistica sintonizzata sul meglio di quel che accade sul pianeta jazz (soprattutto dall’altra parte dell’Atlantico) e la volontà di proporre, edizione dopo edizione, una visione: magari anche di parte e parziale, ma pur sempre un tentativo di offrire una chiave di lettura, un percorso. Percorso che per il 2012 si è snodato tra eventi imperdibili, attese conferme e piacevoli sorprese.
Nella prima categoria, a pieno diritto, rientra quello si annunciava come l’evento più evento del festival: l’esibizione dell’Experimental Band di Muhal Richard Abrams, il seme dal quale, a partire dal ‘61, è germogliata l’AACM. Era da Verona ’93 che il padre Muhal e i suoi figliocci non facevano capolino in Europa. A fianco dell’ottantaduenne pianista gli alfieri della "great black music" targata Chicago: Roscoe Mitchell, George E. Lewis, Henry Threadgill, Leo Smith, Thurman Barker, Amina Claudine Myers, Leonard Jones e Reggie Nicholson. Una generazione di fenomeni. Pura mitologia. Nel bene e, forse prevedibilmente, nel male. «Non poteva che essere così», ha fatto notare qualcuno a chi storceva il naso. Vero. Verissimo. Non poteva che essere un’emozionante rimpatriata, una celebrazione, un immenso tributo. Al di là del bene e del male. La musica? Episodica, frammentaria. Assoli oscillanti tra il meraviglioso (Mitchell e Threadgill) e lo stupendo. Un paio di raccordi in piena regola. Combinazioni e ricombinazioni sempre discrete, il cui ritmo è stato scandito dalla conduction sorniona di Muhal, tornato in cattedra per un lectio magistralis agli alunni di un tempo. Un evento memorabile. Emozionante. Sincero. Ma della musica suonata a Saalfelden, come di quella suonata a Verona diciannove anni fa, in pochi si ricorderanno.
Sarà invece difficile dimenticare, per chi ha cuore e orecchie aperte, le esibizioni di Ches Smith e Mary Halvorson, i portabandiera della scuola di Brooklyn, una delle nuove frontiere del jazz contemporaneo. Visioni simili e complementari quelle dei due, rigorose, architettoniche, cementate da una fatale attrazione per le strutture. La Halvorson (che seguendo l’esempio del mentore Braxton, il grande assente alla lezione di Muhal, assegna ad ogni composizione un numero) ha schierato in Austria il quintetto nato dall’evoluzione del trio con John Hébert e Ches Smith: al sax contralto il luciferino Jon Irabagon; alla tromba Jonathan Finlayson, una delle voci più riconoscibili e pure che ci siano in circolazione. In scaletta gran parte del recente Bending Bridges: un’ora abbondante di saliscendi mozzafiato, temi striscianti e liquidi posati su tappeti ritmici spigolosi e sempre cangianti. Di altissimo livello anche il set proposto da Ches Smith & These Arches, con la Halvorson alla chitarra, Andrea Parkins all’accordion e due sax, Tony Malaby e Tim Berne. Un filo più aggressivo e ruvido l’approccio, ma identica la matrice brooklyniana della band. E anche qui, a fare la differenza, una visione centratissima e rigorosa delle trame musicali. Cartoline dal jazz dei giorni nostri.
Di tutt’altro genere gli altri due gettoni che Tim Berne ha speso a Saalfelden. Il primo in duo con il contrabbasso di Bruno Chevillon. Superbo il faccia a faccia, improvvisazione di rara bellezza e intensità. Il secondo nel trio bb&c, completato da Jim Black alla batteria e dalla chitarra mutante di Nels Cline. Un trio d’assalto, che non ha fatto prigionieri, spingendo al massimo sul pedale dell’intensità. Menzione di merito per Cline, che da qualche tempo ormai sta completando il lavoro di reinvenzione delle sei corde iniziato a suo tempo da Fred Frith. Il chitarrista degli Wilco è salito sul palco anche a fianco della violinista Jenny Scheinman nel quartetto Mischief & Mayhem, con Black alla batteria e il bassista Todd Sickafoose: una ventata di America campagnola, godibilissime suggestioni friselliane. Decisamente più posato il trio Side A: Ken Vandermark al baritono e al clarinetto, Håvard Wiik al pianoforte e Chad Taylor alla batteria. Tristano incontra Monk tra Chicago e Oslo. E anche qui le strutture, le articolazioni precise delle trame a incantare e convincere.
Infine, a chiudere il drappello dei migliori, il concertone finale: Pharoah Sanders accompagnato dal Chicago e dal São Paulo Underground di Rob Mazurek, una sventagliata di quasi due ore a ritmo tropical-futurista. Presente e graffiante Sanders, che a gennaio, al Manzoni di Milano, era sembrato un corpo estraneo. Distaccato il resto del gruppo. Gustoso, ma un tantino risaputo, il quintetto di Gerry Hemingway; divertente il New Blues Project di Aki Takase, con Eugene Chadbourne nei panni di un Fats Waller fricchettone; elegante e trasognato il Giovanni Guidi quintet; prevedibile Henri Texier. Appuntamento all’anno prossimo.
Nella prima categoria, a pieno diritto, rientra quello si annunciava come l’evento più evento del festival: l’esibizione dell’Experimental Band di Muhal Richard Abrams, il seme dal quale, a partire dal ‘61, è germogliata l’AACM. Era da Verona ’93 che il padre Muhal e i suoi figliocci non facevano capolino in Europa. A fianco dell’ottantaduenne pianista gli alfieri della "great black music" targata Chicago: Roscoe Mitchell, George E. Lewis, Henry Threadgill, Leo Smith, Thurman Barker, Amina Claudine Myers, Leonard Jones e Reggie Nicholson. Una generazione di fenomeni. Pura mitologia. Nel bene e, forse prevedibilmente, nel male. «Non poteva che essere così», ha fatto notare qualcuno a chi storceva il naso. Vero. Verissimo. Non poteva che essere un’emozionante rimpatriata, una celebrazione, un immenso tributo. Al di là del bene e del male. La musica? Episodica, frammentaria. Assoli oscillanti tra il meraviglioso (Mitchell e Threadgill) e lo stupendo. Un paio di raccordi in piena regola. Combinazioni e ricombinazioni sempre discrete, il cui ritmo è stato scandito dalla conduction sorniona di Muhal, tornato in cattedra per un lectio magistralis agli alunni di un tempo. Un evento memorabile. Emozionante. Sincero. Ma della musica suonata a Saalfelden, come di quella suonata a Verona diciannove anni fa, in pochi si ricorderanno.
Sarà invece difficile dimenticare, per chi ha cuore e orecchie aperte, le esibizioni di Ches Smith e Mary Halvorson, i portabandiera della scuola di Brooklyn, una delle nuove frontiere del jazz contemporaneo. Visioni simili e complementari quelle dei due, rigorose, architettoniche, cementate da una fatale attrazione per le strutture. La Halvorson (che seguendo l’esempio del mentore Braxton, il grande assente alla lezione di Muhal, assegna ad ogni composizione un numero) ha schierato in Austria il quintetto nato dall’evoluzione del trio con John Hébert e Ches Smith: al sax contralto il luciferino Jon Irabagon; alla tromba Jonathan Finlayson, una delle voci più riconoscibili e pure che ci siano in circolazione. In scaletta gran parte del recente Bending Bridges: un’ora abbondante di saliscendi mozzafiato, temi striscianti e liquidi posati su tappeti ritmici spigolosi e sempre cangianti. Di altissimo livello anche il set proposto da Ches Smith & These Arches, con la Halvorson alla chitarra, Andrea Parkins all’accordion e due sax, Tony Malaby e Tim Berne. Un filo più aggressivo e ruvido l’approccio, ma identica la matrice brooklyniana della band. E anche qui, a fare la differenza, una visione centratissima e rigorosa delle trame musicali. Cartoline dal jazz dei giorni nostri.
Di tutt’altro genere gli altri due gettoni che Tim Berne ha speso a Saalfelden. Il primo in duo con il contrabbasso di Bruno Chevillon. Superbo il faccia a faccia, improvvisazione di rara bellezza e intensità. Il secondo nel trio bb&c, completato da Jim Black alla batteria e dalla chitarra mutante di Nels Cline. Un trio d’assalto, che non ha fatto prigionieri, spingendo al massimo sul pedale dell’intensità. Menzione di merito per Cline, che da qualche tempo ormai sta completando il lavoro di reinvenzione delle sei corde iniziato a suo tempo da Fred Frith. Il chitarrista degli Wilco è salito sul palco anche a fianco della violinista Jenny Scheinman nel quartetto Mischief & Mayhem, con Black alla batteria e il bassista Todd Sickafoose: una ventata di America campagnola, godibilissime suggestioni friselliane. Decisamente più posato il trio Side A: Ken Vandermark al baritono e al clarinetto, Håvard Wiik al pianoforte e Chad Taylor alla batteria. Tristano incontra Monk tra Chicago e Oslo. E anche qui le strutture, le articolazioni precise delle trame a incantare e convincere.
Infine, a chiudere il drappello dei migliori, il concertone finale: Pharoah Sanders accompagnato dal Chicago e dal São Paulo Underground di Rob Mazurek, una sventagliata di quasi due ore a ritmo tropical-futurista. Presente e graffiante Sanders, che a gennaio, al Manzoni di Milano, era sembrato un corpo estraneo. Distaccato il resto del gruppo. Gustoso, ma un tantino risaputo, il quintetto di Gerry Hemingway; divertente il New Blues Project di Aki Takase, con Eugene Chadbourne nei panni di un Fats Waller fricchettone; elegante e trasognato il Giovanni Guidi quintet; prevedibile Henri Texier. Appuntamento all’anno prossimo.
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