I bravi ospiti
Alle Murate di Firenze nuova formula per Azalai - Presenze d'Africa
Recensione
world
L'indice di gradimento dei festival è sempre più dato dai vecchi alle finestre (me ne ero accorto l’altro giorno a Collisioni). Gente che con una telefonata ai vigili al momento giusto può far tutto. Se poi ci sono di mezzo gli africani…
Così il Festival au Désert – Presenze d’Africa, lasciatosi le spalle il Parco delle Cascine (gli strilli de “La Nazione” nelle edicole lo danno in preda al degrado: peccato, due anni fa l’avevamo trovato in forma) occupa l’ex carcere ex convento delle Murate con entusiasmo e qualche preoccupazione. Come quella su come reagirà chi alle Murate ci abita e non sa chi sia Samba Touré, o come quella di capire se tutti i tasselli di un puzzle molto complesso siano o meno destinati ad andare ciascuno al suo posto.
Da qualche tempo i grandi nomi di quello che resta del circuito internazionale della world music non passano molto per l’Italia. Un modello di festival che funziona, invece, è quello coltivato in casa propria attraverso l’arte degli scambi internazionali: ci si gemella con un festival importante (Il Festival au Désert di Timbuctu), si mettono in circolo idee e buoni musicisti, li si fa dialogare e si sta ad ascoltare il risultato: et voilà il cartellone. Un modello sostenibile. Costa meno, fa cultura in maniera continuativa, fa indotto sul territorio (ad esempio, porta i musicisti a provare e suonare in sale prove di periferia) e mette in atto feedback virtuosi: la carovana di Azalai non si ferma a Firenze, ma proseguirà in agosto allo Sziget festival, assorbendo nuovi musicisti dall’Ungheria.
La formula si è affinata in questi ultimi due anni, a partire dalla prima edizione del 2010. La ricetta per una buona riuscita sta tutta nello scegliere la formazione giusta da mandare in campo: dunque, dal Mali ci sono Samba Touré, grande interprete di blues songhay, con il suo gruppo, e le Tartit, ensemble di donne tamashek capitanate da Fadimata Walet Oumar. Per l’Italia il ruolo centrale lo ha un pool di jazzisti coordinati dall’ottimo sassofonista Dimitri Grechi Espinoza, profondo e acuto conoscitore di queste musiche. Con lui, fra gli altri, Pasquale Mirra al vibrafono, Silvia Bolognesi al contrabbasso, Emanuele Parrini al violino. A questi si aggiungono quattro contrabbassisti diretti da Alberto Bocini, prima parte dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, e il cantautore Alessandro Mannarino. Special guest, l’olandese – veterano di incontri africani – Ernst Reijseger. Un bell’album di figurine da gestire.
La “carovana in musica” della rassegna fiorentina è anche in perfetto tempismo sull’agenda internazionale, essendosi dedicata al Mali ben prima del recente collasso e della secessione dell’Azawad: un’occasione dunque anche per parlare di emergenza umanitaria, e delle centinaia di migliaia di profughi in fuga verso Burkina Faso, Niger, Francia… E per mettere insieme musicisti trovatisi ora, loro malgrado, a far parte di fazioni contrapposte, di etnie diverse all’interno del Mali multietnico (songhay Samba Touré, tamashek le Tartit). Il Festival au Désert era nato così, per «promuovere un’altra idea di Islam, all’indomani della guerra civile, come simbolo della pace», si ascolta nel bel documentario Woodstock in Timbuktu di Désirée von Trotha, presentato a Firenze e girato durante l’ultimo Festival au Désert, e quindi – purtroppo – sorpassato dagli eventi. «Abbiamo pianto vedendo le immagini: nessuno di noi è dove era allora» hanno detto commosse, a fine proiezioni, le donne delle Tartit. Insieme alla direzione del festival, fanno parte di quelle centinaia di migliaia di persone.
Il primo “laboratorio” musicale che ascoltiamo, il venerdì, è quello dei quattro contrabbassi diretti da Alberto Bocini insieme alle Tartit, penalizzati purtroppo da un ascolto difficoltoso (molta gente e qualche problema tecnico). Quanto si riesce ad intuire suggerisce un approccio interessante, in cui i contrabbassi si mettono a servizio delle ritmiche del tindé, lavorando ai limiti delle proprie possibilità armoniche e timbriche. Un “passo indietro” tanto più apprezzabile perché proveniente da musicisti di formazione accademica, e che certo fa bene al risultato complessivo, tutto da approfondire.
Discorso inverso per Mannarino e i suoi musicisti: qui le Tartit sono piuttosto relegate nel ruolo di sezione ritmica e finiscono per colorare di africano le canzoni del cantautore, rese un po’ più sinuose da una chitarrina in levare. L’effetto Manu Chao (che pure funzionava nelle produzioni maliane del cantante, vedi SMOD e Amadou & Mariam) è dietro l’angolo, e – davvero – non ha più molto da dire. Più divertente e riuscita, per la sua estemporanea genialità, è la comparsata di un altro cantautore: Bobo Rondelli. Non atteso, arriva sul palco, esegue una “Amara terra mia” e una “Il cielo di tutti” e sparisce.
Se il venerdì è all’insegna della festa anche un po’ caciarona, di altissimo livello qualitativo è la serata di sabato, che si apre con un assaggio del progetto Cacciuk di Dimitri Espinoza, sorta di “orchestra popolare” messa su dall’Arci di Livorno con musicisti professionisti e non: sul palco Simone Padovani alle percussioni, PeeWee Durante all’Hammond, Mamadou Faty alle voce e al djembé e Pasquale Mirra ospite al vibrafono.
A seguire, Ernst Reijseger in dieci minuti di solo riesce a sconvolgere il pubblico: il “brano” parte come una sonata di Bach sempre più saturata di suono (con l’archetto che va a pescare armoniche impensabili raschiando il ponte), poi il violoncello a cinque corde diventa qualcos’altro, una fidula, poi un tamburo, percosso e sfregato con il dito umido, e poi ancora una chitarra elettrica imbracciato di traverso, con arpeggi alla Radiohead, vocalizzi, e poi ancora una chitarra manouche... In mezzo pure un urlo belluino. Un bignami dell’avanguardia migliore – quella che non si prende mai troppo sul serio.
Headliner della serata - se ha senso questo concetto in una carovana - è il gruppo di Samba Touré, interprete molto popolare in Mali di un “songhay blues” debitore del grande Ali Farka. La sezione ritmica è costruita sull’intreccio fra calebasse, congas e ‘ngoni, con la squillante telecaster del leader libera di svariare. Proprio lo ‘ngoni – suonato magnificamente da Djimé Sissoko – finisce con l’essere il perno del gruppo, diviso fra funzione ritmica e variazioni solistiche duettate con la chitarra. Ed è abile Espinoza a incastrare i suoi all’interno di queste dinamiche così ben rodate: ne esce una “jam session” di alto livello, piacevolmente controllata pur nella festa, profondamente collaborativa, in cui anche un solista “smanettone” come Ernst Reijseger si sa mettere a disposizione con umiltà. A riprova che una collaborazione – anche artistica – ben riuscita è innanzitutto questione di buona educazione. Questione di essere bravi “ospiti”, con la splendida ambiguità che questa parola mantiene in italiano: chi sta ospitando e chi è ospitato?
(Per la cronaca, la serata finisce con la signora del primo piano che applaude a tempo: brava ospite anche lei, alla fine)
Foto © Antonio Viscido
Così il Festival au Désert – Presenze d’Africa, lasciatosi le spalle il Parco delle Cascine (gli strilli de “La Nazione” nelle edicole lo danno in preda al degrado: peccato, due anni fa l’avevamo trovato in forma) occupa l’ex carcere ex convento delle Murate con entusiasmo e qualche preoccupazione. Come quella su come reagirà chi alle Murate ci abita e non sa chi sia Samba Touré, o come quella di capire se tutti i tasselli di un puzzle molto complesso siano o meno destinati ad andare ciascuno al suo posto.
Da qualche tempo i grandi nomi di quello che resta del circuito internazionale della world music non passano molto per l’Italia. Un modello di festival che funziona, invece, è quello coltivato in casa propria attraverso l’arte degli scambi internazionali: ci si gemella con un festival importante (Il Festival au Désert di Timbuctu), si mettono in circolo idee e buoni musicisti, li si fa dialogare e si sta ad ascoltare il risultato: et voilà il cartellone. Un modello sostenibile. Costa meno, fa cultura in maniera continuativa, fa indotto sul territorio (ad esempio, porta i musicisti a provare e suonare in sale prove di periferia) e mette in atto feedback virtuosi: la carovana di Azalai non si ferma a Firenze, ma proseguirà in agosto allo Sziget festival, assorbendo nuovi musicisti dall’Ungheria.
La formula si è affinata in questi ultimi due anni, a partire dalla prima edizione del 2010. La ricetta per una buona riuscita sta tutta nello scegliere la formazione giusta da mandare in campo: dunque, dal Mali ci sono Samba Touré, grande interprete di blues songhay, con il suo gruppo, e le Tartit, ensemble di donne tamashek capitanate da Fadimata Walet Oumar. Per l’Italia il ruolo centrale lo ha un pool di jazzisti coordinati dall’ottimo sassofonista Dimitri Grechi Espinoza, profondo e acuto conoscitore di queste musiche. Con lui, fra gli altri, Pasquale Mirra al vibrafono, Silvia Bolognesi al contrabbasso, Emanuele Parrini al violino. A questi si aggiungono quattro contrabbassisti diretti da Alberto Bocini, prima parte dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, e il cantautore Alessandro Mannarino. Special guest, l’olandese – veterano di incontri africani – Ernst Reijseger. Un bell’album di figurine da gestire.
La “carovana in musica” della rassegna fiorentina è anche in perfetto tempismo sull’agenda internazionale, essendosi dedicata al Mali ben prima del recente collasso e della secessione dell’Azawad: un’occasione dunque anche per parlare di emergenza umanitaria, e delle centinaia di migliaia di profughi in fuga verso Burkina Faso, Niger, Francia… E per mettere insieme musicisti trovatisi ora, loro malgrado, a far parte di fazioni contrapposte, di etnie diverse all’interno del Mali multietnico (songhay Samba Touré, tamashek le Tartit). Il Festival au Désert era nato così, per «promuovere un’altra idea di Islam, all’indomani della guerra civile, come simbolo della pace», si ascolta nel bel documentario Woodstock in Timbuktu di Désirée von Trotha, presentato a Firenze e girato durante l’ultimo Festival au Désert, e quindi – purtroppo – sorpassato dagli eventi. «Abbiamo pianto vedendo le immagini: nessuno di noi è dove era allora» hanno detto commosse, a fine proiezioni, le donne delle Tartit. Insieme alla direzione del festival, fanno parte di quelle centinaia di migliaia di persone.
Il primo “laboratorio” musicale che ascoltiamo, il venerdì, è quello dei quattro contrabbassi diretti da Alberto Bocini insieme alle Tartit, penalizzati purtroppo da un ascolto difficoltoso (molta gente e qualche problema tecnico). Quanto si riesce ad intuire suggerisce un approccio interessante, in cui i contrabbassi si mettono a servizio delle ritmiche del tindé, lavorando ai limiti delle proprie possibilità armoniche e timbriche. Un “passo indietro” tanto più apprezzabile perché proveniente da musicisti di formazione accademica, e che certo fa bene al risultato complessivo, tutto da approfondire.
Discorso inverso per Mannarino e i suoi musicisti: qui le Tartit sono piuttosto relegate nel ruolo di sezione ritmica e finiscono per colorare di africano le canzoni del cantautore, rese un po’ più sinuose da una chitarrina in levare. L’effetto Manu Chao (che pure funzionava nelle produzioni maliane del cantante, vedi SMOD e Amadou & Mariam) è dietro l’angolo, e – davvero – non ha più molto da dire. Più divertente e riuscita, per la sua estemporanea genialità, è la comparsata di un altro cantautore: Bobo Rondelli. Non atteso, arriva sul palco, esegue una “Amara terra mia” e una “Il cielo di tutti” e sparisce.
Se il venerdì è all’insegna della festa anche un po’ caciarona, di altissimo livello qualitativo è la serata di sabato, che si apre con un assaggio del progetto Cacciuk di Dimitri Espinoza, sorta di “orchestra popolare” messa su dall’Arci di Livorno con musicisti professionisti e non: sul palco Simone Padovani alle percussioni, PeeWee Durante all’Hammond, Mamadou Faty alle voce e al djembé e Pasquale Mirra ospite al vibrafono.
A seguire, Ernst Reijseger in dieci minuti di solo riesce a sconvolgere il pubblico: il “brano” parte come una sonata di Bach sempre più saturata di suono (con l’archetto che va a pescare armoniche impensabili raschiando il ponte), poi il violoncello a cinque corde diventa qualcos’altro, una fidula, poi un tamburo, percosso e sfregato con il dito umido, e poi ancora una chitarra elettrica imbracciato di traverso, con arpeggi alla Radiohead, vocalizzi, e poi ancora una chitarra manouche... In mezzo pure un urlo belluino. Un bignami dell’avanguardia migliore – quella che non si prende mai troppo sul serio.
Headliner della serata - se ha senso questo concetto in una carovana - è il gruppo di Samba Touré, interprete molto popolare in Mali di un “songhay blues” debitore del grande Ali Farka. La sezione ritmica è costruita sull’intreccio fra calebasse, congas e ‘ngoni, con la squillante telecaster del leader libera di svariare. Proprio lo ‘ngoni – suonato magnificamente da Djimé Sissoko – finisce con l’essere il perno del gruppo, diviso fra funzione ritmica e variazioni solistiche duettate con la chitarra. Ed è abile Espinoza a incastrare i suoi all’interno di queste dinamiche così ben rodate: ne esce una “jam session” di alto livello, piacevolmente controllata pur nella festa, profondamente collaborativa, in cui anche un solista “smanettone” come Ernst Reijseger si sa mettere a disposizione con umiltà. A riprova che una collaborazione – anche artistica – ben riuscita è innanzitutto questione di buona educazione. Questione di essere bravi “ospiti”, con la splendida ambiguità che questa parola mantiene in italiano: chi sta ospitando e chi è ospitato?
(Per la cronaca, la serata finisce con la signora del primo piano che applaude a tempo: brava ospite anche lei, alla fine)
Foto © Antonio Viscido
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