Primavera Sound 2 | Dinosauri non estinti
A Barcellona arrivano i Cure, ma c'è di meglio
Recensione
pop
Il Parc del Fòrum è il posto che tutte le città dovrebbero avere per organizzare concerti. Organizzato su più livelli come una specie di anfiteatro sul mare (buono per le gare di vela, ad esempio), a una decina di minuti in metro dal centro, con spazio sufficiente per farci stare almeno sette palchi. Che, orientati in direzioni diverse, non si disturbano più di tanto.
. Uno spazio buono anche per ospitare "dinosauri": è il caso dei Cure, che - anche con il forfait di Björk per problemi di salute - sono sempre stati gli unici veri headliner pop di un festival altrimenti molto attento alle produzioni più nuove e indipendenti. Con la band di Robert Smith, sembra di capire, il Primavera ci fa il budget della serata e può di contro permettersi di mettere su eventi per intenditori: è il caso di Big Star's Third, omaggio indie all-star al "capolavoro dimenticato" del pop rock messo su dal batterista originale dei Big Star, Jody Stephens. Una specie di "Pavarotti and Friends" dell'indie americano in omaggio al genio di Alex Chilton, con fra gli altri Yo La Tengo, Mike Mills dei R.E.M., Jeff Tweedy dei Wilco, Sharon Van Etten, Norman Blake dei Teenage Fanclub e molti altri. Ospitato nell'auditorium, fuori dal perimetro del festival, l'evento non raccoglie il pubblico che meriterebbe: poco prima, nello stesso posto, la biondissima Laura Marling, nuova diva della canzone folk intimista "americana" (in realtà è inglese, e si sente) aveva radunato molta più gente. La Marling è un giovane talento, ma dopo venti minuti di canzoni a mezza voce arrangiate in stile folk-smooth da una band anche troppo pulita, verrebbe voglia di scendere e scuoterla. Niente del genere con l'altro "dinosauro" del giorno, Marianne Faithfull: la diva inglese, pur appesantita e accompagnata da una non eccelsa band di turnisti catalizza il pubblico fra classici ("As Tears Goes By", immancabile) e cover di lusso (Dylan, Cave, "A Tower of Song" di Cohen: la sua filosofia di vita, spiega). Anche qui, metà del pubblico della Marling... Non c'è più rispetto per gli anziani.
Nel giorno in cui i Cure suonano tre ore (inaudito!), però, si possono anche fare percorsi alternativi: è anche il giorno dell'Italia, ad esempio. Trovarobato, che senza timore di sembrare snob presenteremo come una delle etichette italiane meno italiane, presenta il suo Boxeur the Coeur: l'elettronica funziona meglio di notte e con le luci, e non di giorno, vista mare e sotto il sole, ma la qualità della proposta è alta, alla pari con molte altre cose viste. E, è il caso di dirlo, è bene che la scena italiana sia rappresentata in Europa da questo genere di prodotti "europei": svecchia un mercato e un modo di promuovere i propri prodotti.
Poi ci sono i Rapture, il cui funk "sbiancato" dal vivo rende al meglio, pulito come su disco. O, dall'Oklahoma, gli Other Lives, che si presentano come i nuovi genietti del post-folk americano. Multistrumentisti, sono un credibile punto di incontro fra i Fleet Foxes (per le armonie vocali, gli archi...), l'eredità del folk-prog inglese incarnata in formazioni come i Decemberists e la psichedelia dei nuovi gruppi di Brooklyn (alla Yeasayer, ad esempio).
Una ventata di freschezza, specie dopo due giorni di festival, quando tutti i gruppi indie sembrano uguali. Ad esempio, i lanciatissimi The Drum: davvero, sempre la solita roba. O i pure esaltanti The Men, nipotini incazzati e hip di Sonic Youth e dintorni.
Per fortuna ci sono i Dirty Three, una delle band live che auguriamo a tutti di sentire dal vivo, una volta nella vita. Warren Ellis (anche violinista e mandolinista di Bad Seeds e Grinderman con Nick Cave) e i suoi, live, hanno più a che fare con il free-jazz che con l'indie rock, per il modo in cui gestiscono l'improvvisazione, fra feedback e crescendo che non finiscono mai. Ancora una volta, musica da ascoltare a tutto volume, possibilmente davanti alle casse, capace di estinguere ogni dinosauro (dice Ellis in avvio: "Have you seen the f****** Cure? WHO CARES!").
. Uno spazio buono anche per ospitare "dinosauri": è il caso dei Cure, che - anche con il forfait di Björk per problemi di salute - sono sempre stati gli unici veri headliner pop di un festival altrimenti molto attento alle produzioni più nuove e indipendenti. Con la band di Robert Smith, sembra di capire, il Primavera ci fa il budget della serata e può di contro permettersi di mettere su eventi per intenditori: è il caso di Big Star's Third, omaggio indie all-star al "capolavoro dimenticato" del pop rock messo su dal batterista originale dei Big Star, Jody Stephens. Una specie di "Pavarotti and Friends" dell'indie americano in omaggio al genio di Alex Chilton, con fra gli altri Yo La Tengo, Mike Mills dei R.E.M., Jeff Tweedy dei Wilco, Sharon Van Etten, Norman Blake dei Teenage Fanclub e molti altri. Ospitato nell'auditorium, fuori dal perimetro del festival, l'evento non raccoglie il pubblico che meriterebbe: poco prima, nello stesso posto, la biondissima Laura Marling, nuova diva della canzone folk intimista "americana" (in realtà è inglese, e si sente) aveva radunato molta più gente. La Marling è un giovane talento, ma dopo venti minuti di canzoni a mezza voce arrangiate in stile folk-smooth da una band anche troppo pulita, verrebbe voglia di scendere e scuoterla. Niente del genere con l'altro "dinosauro" del giorno, Marianne Faithfull: la diva inglese, pur appesantita e accompagnata da una non eccelsa band di turnisti catalizza il pubblico fra classici ("As Tears Goes By", immancabile) e cover di lusso (Dylan, Cave, "A Tower of Song" di Cohen: la sua filosofia di vita, spiega). Anche qui, metà del pubblico della Marling... Non c'è più rispetto per gli anziani.
Nel giorno in cui i Cure suonano tre ore (inaudito!), però, si possono anche fare percorsi alternativi: è anche il giorno dell'Italia, ad esempio. Trovarobato, che senza timore di sembrare snob presenteremo come una delle etichette italiane meno italiane, presenta il suo Boxeur the Coeur: l'elettronica funziona meglio di notte e con le luci, e non di giorno, vista mare e sotto il sole, ma la qualità della proposta è alta, alla pari con molte altre cose viste. E, è il caso di dirlo, è bene che la scena italiana sia rappresentata in Europa da questo genere di prodotti "europei": svecchia un mercato e un modo di promuovere i propri prodotti.
Poi ci sono i Rapture, il cui funk "sbiancato" dal vivo rende al meglio, pulito come su disco. O, dall'Oklahoma, gli Other Lives, che si presentano come i nuovi genietti del post-folk americano. Multistrumentisti, sono un credibile punto di incontro fra i Fleet Foxes (per le armonie vocali, gli archi...), l'eredità del folk-prog inglese incarnata in formazioni come i Decemberists e la psichedelia dei nuovi gruppi di Brooklyn (alla Yeasayer, ad esempio).
Una ventata di freschezza, specie dopo due giorni di festival, quando tutti i gruppi indie sembrano uguali. Ad esempio, i lanciatissimi The Drum: davvero, sempre la solita roba. O i pure esaltanti The Men, nipotini incazzati e hip di Sonic Youth e dintorni.
Per fortuna ci sono i Dirty Three, una delle band live che auguriamo a tutti di sentire dal vivo, una volta nella vita. Warren Ellis (anche violinista e mandolinista di Bad Seeds e Grinderman con Nick Cave) e i suoi, live, hanno più a che fare con il free-jazz che con l'indie rock, per il modo in cui gestiscono l'improvvisazione, fra feedback e crescendo che non finiscono mai. Ancora una volta, musica da ascoltare a tutto volume, possibilmente davanti alle casse, capace di estinguere ogni dinosauro (dice Ellis in avvio: "Have you seen the f****** Cure? WHO CARES!").
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