Il Teatro nazionalpopolare
All'Hiroshima Il Teatro degli Orrori: arroganza, genio, politica, affinità e divergenze
Recensione
pop
Si sarà accorto, Il Teatro degli Orrori, di essere prossimo a diventare nazionalpopolare? Il che, per dei fan di Gramsci (il «benevolo filosofo» citato nella bella canzone “Martino”) dovrebbe suonare come un complimento. Per quanto mi riguarda, lo è: ci troviamo a testimoniare – pare – una di quelle rare fasi di passaggio di una band dall’underground indie italiano ad un più vasto pubblico. Lo conferma un fitto tour nei club (addirittura in data doppia all’Hiroshima di Torino, con sala piena) e il recente invito allo Sziget Festival di Budapest, fra gli eventi rock dell’estate europea (e fra i più frequentati dal pubblico italiano). E se a fare il fatidico “salto” è una rock band “politica” nel senso migliore della parola, che fa dell’intransigenza civile la sua bandiera e che crede in un valore “educativo” della canzone, e che per giunta suona pure bene, è difficile esserne scontenti. Il parallelismo più immediato – mutatis mutandis – può essere quello con i C.S.I. Altra epoca, frontman molto diversi (l’istrionico Capovilla contro il litanico Ferretti, che nell’ultimo, fatidico per la sorte del gruppo, tour nei palazzetti si esibiva bendato e immobile…). Ma anche punti in comune: la lunga gavetta, le radici underground, l’esperienza di altri gruppi importanti, l’impegno…
Come poteva stupire che masse di giovani si interessassero di una band nel 1997 che cantava (urlava?) «Sogno tecnologico bolscevico / atea mistica meccanica», così ci si stupisce oggi nel vedere centinaia di ragazzi urlare in coro i testi dell’ultimo disco del Teatro, Il mondo nuovo: non sono facilissimi, né da cantare né da ricordare – così pieni di parole e prosastici - né spesso immediati da capire. Ascoltati dal vivo (nella circostanza, sabato 31 marzo all’Hiroshima), creano un curioso “effetto stadio”, poco cantato anche nelle parti più melodiche:
Qualcuno di cui non dirò il nome
che sembra il ritratto di un uomo che annega nel mare urbano
di donne indifferenti e un po’ qualunque
[…] Roma capitale, sei ripugnante, non ti sopporto più!
Ci si può stupire ma, in tutta sincerità, non si dovrebbe storcere il naso per chissà quale elitarismo indie. È vero, Il mondo nuovo ha diviso la critica italiana (io sono fra i fan, sia detto per inciso), beccandosi accuse di maggiore commercialità, di eccesso di ambizione e di arroganza (un concept album sull’immigrazione di oltre un’ora…), di esser stato “sacrificato al messaggio” perdendo qualcosa in immediatezza rispetto ai due precedenti lavori della band (che di certo non gli erano inferiori come qualità, anzi). Vero, Il mondo nuovo non è esente da pecche e da eccessi, che talvolta fanno pendere la bilancia dall’epico al kitsch (“Ion”, dedicata a un operaio rumeno bruciato vivo, per esempio, non funziona proprio benissimo, anche live). Altri pezzi invece (la melodica “Dimmi addio”, o “Adrian” che dal vivo mostra in pieno le idee meno “pop” del gruppo e il genio istrionico di Capovilla) sono destinati a un posto di rilievo nella memoria musicale di questi anni.
Rimane, tirando le somme dopo il secondo concerto all’Hiroshima, l’impressione di una band come ce ne sono poche, oggi, in Italia. Che suona con volume e generosità altissimi, per più di due ore, infilando anche cinque o sei bis (ormai “classici”: “La canzone di Tom”, il singolone “Io cerco te”, “A sangue freddo”…) e lanciando proclami politici (TAV, lavoro nero, situazione carceraria, la distruzione del delta del Niger…) senza mezze misure. Magari con arroganza ma – francamente – quando ci vuole ci vuole.
Come poteva stupire che masse di giovani si interessassero di una band nel 1997 che cantava (urlava?) «Sogno tecnologico bolscevico / atea mistica meccanica», così ci si stupisce oggi nel vedere centinaia di ragazzi urlare in coro i testi dell’ultimo disco del Teatro, Il mondo nuovo: non sono facilissimi, né da cantare né da ricordare – così pieni di parole e prosastici - né spesso immediati da capire. Ascoltati dal vivo (nella circostanza, sabato 31 marzo all’Hiroshima), creano un curioso “effetto stadio”, poco cantato anche nelle parti più melodiche:
Qualcuno di cui non dirò il nome
che sembra il ritratto di un uomo che annega nel mare urbano
di donne indifferenti e un po’ qualunque
[…] Roma capitale, sei ripugnante, non ti sopporto più!
Ci si può stupire ma, in tutta sincerità, non si dovrebbe storcere il naso per chissà quale elitarismo indie. È vero, Il mondo nuovo ha diviso la critica italiana (io sono fra i fan, sia detto per inciso), beccandosi accuse di maggiore commercialità, di eccesso di ambizione e di arroganza (un concept album sull’immigrazione di oltre un’ora…), di esser stato “sacrificato al messaggio” perdendo qualcosa in immediatezza rispetto ai due precedenti lavori della band (che di certo non gli erano inferiori come qualità, anzi). Vero, Il mondo nuovo non è esente da pecche e da eccessi, che talvolta fanno pendere la bilancia dall’epico al kitsch (“Ion”, dedicata a un operaio rumeno bruciato vivo, per esempio, non funziona proprio benissimo, anche live). Altri pezzi invece (la melodica “Dimmi addio”, o “Adrian” che dal vivo mostra in pieno le idee meno “pop” del gruppo e il genio istrionico di Capovilla) sono destinati a un posto di rilievo nella memoria musicale di questi anni.
Rimane, tirando le somme dopo il secondo concerto all’Hiroshima, l’impressione di una band come ce ne sono poche, oggi, in Italia. Che suona con volume e generosità altissimi, per più di due ore, infilando anche cinque o sei bis (ormai “classici”: “La canzone di Tom”, il singolone “Io cerco te”, “A sangue freddo”…) e lanciando proclami politici (TAV, lavoro nero, situazione carceraria, la distruzione del delta del Niger…) senza mezze misure. Magari con arroganza ma – francamente – quando ci vuole ci vuole.
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