Il bilancio | Bergamo Jazz 3
Si chiude il festival di Rava con l'emozione del trio di Craig Taborn
Recensione
jazz
È una domenica ricca di sorprese questa che l’inizio primavera riserva a Bergamo: nemmeno il tempo di abituarsi all’ora legale, l’Atalanta che gioca in orario "pranzo all’ospizio", una sfilata di carri carnevaleschi che blocca mezza città e pure un accenno di temporale in un clima altrimenti splendido.
Anche il Festival jazz è mattiniero e propone all’Auditorium in orario aperitivo la giovane promessa del sax contralto Mattia Cigalini. Il suo progetto, una rilettura in trio con basso elettrico e batteria di alcune hit pop dance del momento, mi sembra abbastanza indigeribile e non sono certo che serva a "avvicinare i giovani al jazz" come auspica il pur sincero musicista. (Mutatis mutandis: qualche "giovane" si sarebbe mai avvicinato al teatro negli anni Settanta se, che so, Peter Brook avesse portato in scena una puntata di Goldrake?) Il talento di Cigalini è notevolissimo, così come colpisce il suo genuino entusiasmo, ma credo che potrà dire qualcosa di significativo solo quando e se metterà da parte tutta una serie di cliché, progettuali e culturali prima ancora che musicali.
È lo stesso palcoscenico a ospitare, nel mezzo del pomeriggio, quello che si può definire senza ombra di smentita il concerto più straordinario del festival. Era atteso, sì, il trio del pianista Craig Taborn (di cui molti sembrano accorgersi solo per il bel solo su Ecm, ma che in realtà vola altissimo da molti anni ormai), ma l’intensità e la magia che il denso dialogo con il contrabbasso di Thomas Morgan e la batteria di Gerald Cleaver ha trasmesso al pubblico è quasi impossibile da descrivere. Un flusso ininterrotto di quasi un’ora e mezza, seguito da tutti in religioso silenzio, una costruzione sfavillante di dettagli e di straordinarie intuizioni timbriche e ritmiche, condotte con un fraseggio quasi febbrile, architettate lontano da ogni furbizia o calcolo (due assoli quasi afasici e meravigliosi del contrabbasso a fine concerto, ad esempio) sono la dimostrazione più toccante del valore raggiunto da Taborn.
Ma come, direte voi? Pure lui come Berne è stato strepitoso e pure lui lo hanno messo al pomeriggio?
Già, anche se in questo caso era più problematico inserirlo nella serata del Donizetti, che prevedeva già un altro piano trio, quello di Brad Mehldau.
Confesso: ci ho messo volutamente una buona cena in mezzo, accompagnata da ottimo vino e da vivaci scambi di opinioni con colleghi italiani e stranieri, eppure non ero sicuro che mi sarei accostato a Mehldau con la testa totalmente liberata dall’emozione di Taborn. Alla fine invece è andata bene e me lo sono goduto: il trio con Larry Grenadier e Jeff Ballard, nonostante si muova su coordinate già ben conosciute e prive di sorprese, ha regalato infatti al generoso pubblico del Teatro una serata di ottimo livello, misurata ma musicalissima, esplorando con la consueta telepatia temi come "I Concentrate On You" di Cole Porter o "Great Day" di Paul McCartney, lasciando per il bis il rapinoso fraseggiare di quella "C.T.A." di Jimmy Heath che molti ricorderanno nella guizzante versione di Art Pepper e Chet Baker.
Chiusura di festival con la divertente Pocket Brass band del trombonista Ray Anderson: avevamo aperto con una tuba, si chiude con il sousaphone di Matt Perrine a sorreggere con Eric McPherson alla batteria le volute inzuppate di blues di Anderson e dell’esperto trombettista Lew Soloff.
Si ripercorre un po’ tutta la storia del jazz con questo bel quartetto – anche grazie a una bella suite chicagoana di dichiarato sapore autobiografico – e spiace un po’ che la stanchezza e l’ora tarda suggeriscano energie meno "marcianti".
La prima edizione di Bergamo jazz firmata Enrico Rava si chiude con un bilancio decisamente positivo: ottima risposta di pubblico, ottimo clima complessivo e scelte votate a una intelligente varietà.
I "consigli della nonna" per il direttore artistico si possono quindi sostanzialmente ridurre a una manciata e partono dalla considerazione che la curatela di un festival di questo livello (pur tenendo conto di tutte le complessità diplomatiche del caso) può e direi deve provare a andare oltre l’allestimento di un cartellone efficace.
C’è l’opportunità di dare conto di quanto di meglio c’è in giro e allo stesso tempo di fare crescere culturalmente il pubblico e l'ambiente senza paura di osare. In questo senso, una personalità come quella di Rava mi sembra adattissima a "permettersi" uno sguardo di questo tipo.
Più coraggio negli accostamenti serali non guasterà certo: il pubblico del festival ha dimostrato fidelizzazione a prescindere dal programma (non mi si dica che la serata di Buika e Akinmusire era esaurita grazie ai loro nomi…) e un Berne o un Taborn avrebbero certo meritato la platea più "prestigiosa".
Non guasterebbe nemmeno chiedere agli artisti della sera di suonare un paio di pezzi in meno: il pubblico sarebbe più fresco, si eviterebbero fuggi fuggi ingobbiti tra le poltrone nel secondo set e magari potrebbe essere l’occasione per (re)introdurre un appuntamento a mezzanotte in qualche altro posto.
Un’ultima indicazione mi sento di darla riguardo ai talenti italiani: Rava ha sempre dimostrato nei confronti delle generazioni più giovani un fiuto e una sensibilità invidiabile e credo si possa incominciare a offrire in occasioni come questa lo spazio a quei musicisti e collettivi (faccio nomi, El Gallo Rojo, Improvvisatore Involontario, etc.) che sono tra le cose più interessanti e vive del nostro jazz. Suscitano interesse da parte di un pubblico nuovo e hanno negli ultimi anni ottenuto anche un meritato riconoscimento critico. Come mai continuino a essere assenti dai cartelloni dei grandi festival è un mistero che speriamo possa essere presto smentito.
Anche il Festival jazz è mattiniero e propone all’Auditorium in orario aperitivo la giovane promessa del sax contralto Mattia Cigalini. Il suo progetto, una rilettura in trio con basso elettrico e batteria di alcune hit pop dance del momento, mi sembra abbastanza indigeribile e non sono certo che serva a "avvicinare i giovani al jazz" come auspica il pur sincero musicista. (Mutatis mutandis: qualche "giovane" si sarebbe mai avvicinato al teatro negli anni Settanta se, che so, Peter Brook avesse portato in scena una puntata di Goldrake?) Il talento di Cigalini è notevolissimo, così come colpisce il suo genuino entusiasmo, ma credo che potrà dire qualcosa di significativo solo quando e se metterà da parte tutta una serie di cliché, progettuali e culturali prima ancora che musicali.
È lo stesso palcoscenico a ospitare, nel mezzo del pomeriggio, quello che si può definire senza ombra di smentita il concerto più straordinario del festival. Era atteso, sì, il trio del pianista Craig Taborn (di cui molti sembrano accorgersi solo per il bel solo su Ecm, ma che in realtà vola altissimo da molti anni ormai), ma l’intensità e la magia che il denso dialogo con il contrabbasso di Thomas Morgan e la batteria di Gerald Cleaver ha trasmesso al pubblico è quasi impossibile da descrivere. Un flusso ininterrotto di quasi un’ora e mezza, seguito da tutti in religioso silenzio, una costruzione sfavillante di dettagli e di straordinarie intuizioni timbriche e ritmiche, condotte con un fraseggio quasi febbrile, architettate lontano da ogni furbizia o calcolo (due assoli quasi afasici e meravigliosi del contrabbasso a fine concerto, ad esempio) sono la dimostrazione più toccante del valore raggiunto da Taborn.
Ma come, direte voi? Pure lui come Berne è stato strepitoso e pure lui lo hanno messo al pomeriggio?
Già, anche se in questo caso era più problematico inserirlo nella serata del Donizetti, che prevedeva già un altro piano trio, quello di Brad Mehldau.
Confesso: ci ho messo volutamente una buona cena in mezzo, accompagnata da ottimo vino e da vivaci scambi di opinioni con colleghi italiani e stranieri, eppure non ero sicuro che mi sarei accostato a Mehldau con la testa totalmente liberata dall’emozione di Taborn. Alla fine invece è andata bene e me lo sono goduto: il trio con Larry Grenadier e Jeff Ballard, nonostante si muova su coordinate già ben conosciute e prive di sorprese, ha regalato infatti al generoso pubblico del Teatro una serata di ottimo livello, misurata ma musicalissima, esplorando con la consueta telepatia temi come "I Concentrate On You" di Cole Porter o "Great Day" di Paul McCartney, lasciando per il bis il rapinoso fraseggiare di quella "C.T.A." di Jimmy Heath che molti ricorderanno nella guizzante versione di Art Pepper e Chet Baker.
Chiusura di festival con la divertente Pocket Brass band del trombonista Ray Anderson: avevamo aperto con una tuba, si chiude con il sousaphone di Matt Perrine a sorreggere con Eric McPherson alla batteria le volute inzuppate di blues di Anderson e dell’esperto trombettista Lew Soloff.
Si ripercorre un po’ tutta la storia del jazz con questo bel quartetto – anche grazie a una bella suite chicagoana di dichiarato sapore autobiografico – e spiace un po’ che la stanchezza e l’ora tarda suggeriscano energie meno "marcianti".
La prima edizione di Bergamo jazz firmata Enrico Rava si chiude con un bilancio decisamente positivo: ottima risposta di pubblico, ottimo clima complessivo e scelte votate a una intelligente varietà.
I "consigli della nonna" per il direttore artistico si possono quindi sostanzialmente ridurre a una manciata e partono dalla considerazione che la curatela di un festival di questo livello (pur tenendo conto di tutte le complessità diplomatiche del caso) può e direi deve provare a andare oltre l’allestimento di un cartellone efficace.
C’è l’opportunità di dare conto di quanto di meglio c’è in giro e allo stesso tempo di fare crescere culturalmente il pubblico e l'ambiente senza paura di osare. In questo senso, una personalità come quella di Rava mi sembra adattissima a "permettersi" uno sguardo di questo tipo.
Più coraggio negli accostamenti serali non guasterà certo: il pubblico del festival ha dimostrato fidelizzazione a prescindere dal programma (non mi si dica che la serata di Buika e Akinmusire era esaurita grazie ai loro nomi…) e un Berne o un Taborn avrebbero certo meritato la platea più "prestigiosa".
Non guasterebbe nemmeno chiedere agli artisti della sera di suonare un paio di pezzi in meno: il pubblico sarebbe più fresco, si eviterebbero fuggi fuggi ingobbiti tra le poltrone nel secondo set e magari potrebbe essere l’occasione per (re)introdurre un appuntamento a mezzanotte in qualche altro posto.
Un’ultima indicazione mi sento di darla riguardo ai talenti italiani: Rava ha sempre dimostrato nei confronti delle generazioni più giovani un fiuto e una sensibilità invidiabile e credo si possa incominciare a offrire in occasioni come questa lo spazio a quei musicisti e collettivi (faccio nomi, El Gallo Rojo, Improvvisatore Involontario, etc.) che sono tra le cose più interessanti e vive del nostro jazz. Suscitano interesse da parte di un pubblico nuovo e hanno negli ultimi anni ottenuto anche un meritato riconoscimento critico. Come mai continuino a essere assenti dai cartelloni dei grandi festival è un mistero che speriamo possa essere presto smentito.
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