Nuragici, ancestrali

diario del 10 luglio

Recensione
jazz
A Barumini c’è una Fondazione che si chiama “Sistema Cultura”. Ieri sera i giovani del servizio d’ordine avevano tutti la maglia bianca con la scritta blu e hanno lavorato benissimo e tutti erano contenti. Un paio di migliaia di persone, forse di più, sedute per terra a guardare il Nuraxi Mannu che è un portento di posto e che solo a vederlo ti dice che tu non sei nessuno e che se sei lì è perché prima di te c’è stata un sacco di gente in Sardegna negli ultimi 3.500 anni. “Fondazione Barumini Sistema Cultura” ha come immagine una pianta stilizzata del Villaggio nuragico scoperto da Giovanni Lilliu nei primi anni cinquanta e che oggi è l’espressione architettonica più complessa e affascinante della civiltà megalitica protosarda. Ci arriviamo da Las Plassas con il castello giudicale di Eleonora D’Arborea e dalla torre principale del nuraghe si domina l’altipiano di Gesturi dove pascolano i mitici cavallini della Giara. I grandi massi di basalto nero provenienti dall’altipiano pare siano stati portati da due chilometri di distanza e da un popolo, quello dei protosardi, che non conosceva la scrittura e la cui civiltà è ancora oggi avvolta nel mistero. Resta però la grandezza di quel luogo e il fascino di un’architettura avanzata e perfetta che ancora oggi incute timore per la sua mastodonticità e perfezione.
Alle cinque e mezzo di uno dei pomeriggi più caldi di questa estate sarda siamo arrivati in paese che non c’era nessuno. Solo un Bar aperto nel centro con un ragazzo di colore che serviva i gelati e un tipo seduto nella veranda che suonava l’armonica a bocca. Un ragazzo di colore, un tipo che suona l’armonica, un anziano col pantalone di velluto e due calzini spaiati e noi. Il tour manager Roberto Perisi, il fotografo ufficiale Gianfranco Mura, mio figlio Andrea e mia moglie Sonia. Non fosse per Su Nuraxi, alle cinque e mezzo di un pomeriggio di luglio Barumini sarebbe un posto come tanti e invece è il centro del mondo al punto che il monumento è diventato nel 1997 patrimonio mondiale dell’Unesco accanto alle Piramidi d’Egitto, l’Acropoli di Atene, il Machu Picchu peruviano, Pompei o il Louvre di Parigi. Quando sono arrivato lì, con quaranta gradi all’ombra, mi sono chiesto più volte cosa c’entravamo io e Ralph Towner in quel posto ma poi una risposta me la sono data e ho pensato che eravamo talmente insignificanti, rispetto a quel luogo, da non potergli fare male. Del resto quando ho pensato a “!50”, quello era uno dei luoghi dove sarei potuto andare e l’ho detto subito al Sindaco Emanuele Lilliu appena è arrivato con quelli della Soprintendenza. Ciò che sembra disturbare, alla luce del giorno, sono le due sedie rosse per i musicisti, i cavi e il mixer che di civiltà nuragica sembra non sapere molto ma sappiamo anche che questa notte saranno le luci e Su Nuraxi a dominare e a rendere quel luogo ancora più affascinante. Franceschino Carta è nuragico anche lui. Se non avesse un piercing nel capezzolo destro potrebbe essere nato lì come Enrico Sau, Antonio Soi e Adriano Pisi che sono protosardi anche loro e si vede anche se alcuni hanno nel corpo tatuaggi senza bronzetti. Luca invece è più delicato perché è più giovane e anche se è barbaricino ha un padre calabrese che stempera le qualità da prototìpo ma fa la parte del cattivo perché la sera deve tenere a bada le migliaia di persone che accorrono a ogni concerto e che, visto che non si sono né palchi né sedie, pensano di avere il diritto di fare qualsiasi cosa del tipo fare foto con e senza flash, fare video, fare, tentare di entrare nell’area del concerto calpestando cavi e strumenti, protestare con quello o quella che fa foto, video e che calpesta i cavi e protesta a sua volta con quelli e quelle che fanno foto, chiedono autografi e non hanno penne e non sanno usare la macchina fotografica o alla meno peggio hanno esaurito la batteria o finito la memoria della scheda video che ci hanno ancora le foto della festa di compleanno dello scorso ottobre. Accade di tutto nel villaggio nuragico di Barumini e accade anche che dopo sei note sei regna la pace e tutti o quasi tutti guardano il cielo e la luna che gli sta dietro in un silenzio magico.

Ralph Towner arriva da Cagliari e capisce di non essere in un club di jazz e nemmeno alla Carnegie Hall di New York City. Anche un cieco sarebbe in grado di percepire l’immensità di quel luogo e l’aura che lo circonda con la luce che emana. C’è un suono acustico bellissimo. Lo è anche quello amplificato ed è come se lì tutto abbia un senso perché ci sono 3500 anni di storia. Dico che stasera siamo in Chiesa e che bisogna avere rispetto di un luogo sacro. Ci avviciniamo con riverenza e lanciamo le prime note alle pietre e al cielo.
“Punta Giara” è il brano che ci ha fatto conoscere venti anni prima in un altro posto con un nuraghe più piccolo che è Sant’Anna Arresi. Le luci sono ancora su di noi e il nuraghe è dietro in attesa. Lentamente ci accendono le luci sul villaggio e sulla torre principale di Su Nuraxi e la notte da un senso al nostro essere lì. Blu, rossi, fucsia, a raccontare i tramonti sempre uguali di migliaia di anni. Tramonti mozzafiato sull’altipiano e dietro le colline. “Punta Giara” apre il nostro cd per la ECM dal titolo “Chiaroscuro” come questa notte stellata e con una luna chiara. “Chiaroscuro” è il secondo bis del nostro concerto ma prima suoniamo “The Sacred Place” di Ralph e io mi sposto con il flicorno verso una delle case-pinnettas del villaggio nuragico illuminate di blu.
Non potrebbe essere altrimenti. Un piede nella “pinnetta” è un piede nella storia dell’uomo e della Sardegna misteriosa. Un suono che si perde nel nulla. Nella memoria architettonica e littica dei nostri padri come fosse notte tutti i giorni di tutti gli anni.
“Passavamo sulla terra leggeri come acqua come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti!”. Forse il concerto di ieri sera sarebbe piaciuto a Sergio Atzeni. Chissà se quando ha scritto quei versi straordinari ha pensato a Su Nuraxi Mannu di Barumini e ai protosardi che lo hanno abitato 3500 anni prima di Cristo. Mir, Umur, Usir, Ure i nomi. Is, Er, Fe, Ja, Om, ElIs, Er, Fe, Ja, Om, El i suoni.

Elle Brandu questa mattina commenta le dieci foto postate da Gianfranco Mura e scrive "Un'energia strana in quel luogo: frizzante e potente insieme. Pare cucita a piccoli punti di note intrecciate al silenzio. Le stelle mandano strani segnali come d'attesa, la luna assorbe ogni cosa nel suo lento incedere. Noi lì. A guardare, ascoltare e assorbire ogni cosa per dare un riflesso diverso all'Anima".

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