Le sculture bianche di Nivola

diario del 5 luglio

Recensione
jazz
Per i cento anni di Antine Nivola c’erano tutti e la serata era quella delle grandi occasioni. Il Presidente della Fondazione Nivola Ugo Collu nella sua introduzione ha giocato con i numeri. 100 anni quelli di Nivola, 50 i miei e 150 quelli dell’Italia di oggi. Io ho aggiunto il Novecento, che Antine ha attraversato con la sua poesia e che oggi è documentato nell’ala nuova del parco appena inaugurato e ben disegnato dall’architetto Gianfranco Crisci. Bellissimo tutto e tutto coerente. Il granito e l’acqua. Gli ulivi bassi e il prato verde dove stavano sedute qualche migliaio di persone di tutte le età comprese due Tzie centenarie che hanno l’età di Nivola e che erano a fianco alla sorella più giovane di “Titinu”. Chissà cosa avranno pensato nel sentire la voce sufi di Dhafer Youssef e la chitarra acida e distorta del norvegese Eivind Aarset. Alla fine siamo andati tutti e tre a salutarle e la chioma bianca di Eivind che baciava Tzia Chischedda tutta vestita di nero poteva essere una foto di Cartier-Bresson e Nivola ne sarebbe stato contento.
“Memorie di Orani” pubblicato dai tipi della Scheiwiller è il primo libro di Nivola che ho letto. Allo scultore di Orani, nell’estate del 1987, dedicammo un lungo saggio collettivo che coinvolse circa 120 allievi dei Seminari di Nuoro Jazz oltre ai 15 insegnanti. Era una sorta di opera contemporanea. Un'opera musicale e teatrale con la presenza delle voci narranti. Per questo iniziai a leggere il diario di Costantino Nivola scoprendo un poeta della parola prima che delle forme e dei colori. “Vorrei che fosse un melograno”, una delle sue poesie contenute nel libro, era il titolo del nostro spettacolo improvvisato che portammo prima a Orani e poi a Nuoro nei vari angoli di Piazza Satta. Dai palchi e palchetti distribuiti tra le sue sculture dedicate allo scrittore nuorese fuoriuscivano quelle note in grado di vestire le parole di Nivola. Note connotate dalla musica forse più adatta al suo mondo: il jazz. È attraverso la musica dunque che ho scoperto il mondo di Antine Nivola ed è grazie alle sue Dee Madri che la forma si fa musica quando, al tatto, il marmo levigato diviene melodia e accordo perfetto. Nivola compie cento anni come il jazz. La sua opera ha attraversato il Novecento fotografando un secolo dentro e fuori. Tra il bisogno di una ricerca tesa verso il contemporaneo e lo sguardo dentro le proprie radici. Osservando le sue opere si ha la netta sensazione di doverci entrare nel cuore. Perché altrimenti queste restano un estetismo fine a se stesso quando invece esprimono il viscerale e l’arcaico di ogni uomo. Attraverso l’opera di Nivola si va in giro per il mondo sapendo di poter ritornare a casa e la nostra musica di ieri sera con Dhafer e Eivind sembra musica di oggi e forse a Nivola sarebbe piaciuta perché incarna la filosofia di quel viaggio tra il mondo e il ritorno a casa.
Alle 19.30 la luce di Orani dava ancora più risalto alle bianche opere di Nivola. Dal parco del Museo l’agglomerato delle case sembra quello disegnato da Antine in altri anni rispetto a quelli di ora e più la luce del giorno si spegne più questo assume un carattere magico che rende la musica ancora più forte e geograficamente indefinibile. Orani è la voce mediterranea di Youssef, Nivola sono i pad e i sampler di Eivind, la valle verso Ottana è la tromba tagliente nella melodia del “Concerto de Aranjuez” di Rodrigo.
Lo scrittore Salvatore Niffoi oggi non c’è ma lui esce poco e mi telefona scusandosi. “Niffoi est sirvone”, è cinghiale, mi dice un signore e non c’è da stupirsi nel vedere quei luoghi che potrebbero essere Piracherfa o Baraule. Passiamo a salutare il sarto Gianni Mura che è dietro il tavolo con i due figli e delle grandi forbici intento a tagliare un velluto blu cangiante. «Ti posso regalare una camicia per questa sera?» mi chiede. Ne scelgo una bianca plissettata che tutto sembra meno che una camicia di pastori. Gli chiedo se viene al concerto. Mi risponde che non lo sa perché i pastori tornano in paese tardi e lui deve rimanere aperto fino a notte tra velluti, orbace, fustagni e cotone. Alla parete c’è una mia foto con lui di quale anno fa e una famosa fotografia di “Titinu” Nivola con un vestito color ocra con tanto di “corpette” e “gambales”. Non fosse stato lui sembrerebbe uno di quei pastori che stanno ritornando da campagna alle nove di sera. Uno di questi viene a concerto finito. “A it’ora incominzades” mi chiede. Gli rispondo che è già finito. “E una cosa pro mene no la si podet sonare? A Titinu lu connoschia bene. Onzi orta chi beniat nos buffaimus una cosa impare”.
Andando a cena passiamo davanti a diversi “tzilleris” con ragazzi e ragazze. Sembra di vedere Nivola ai loro tavoli, a bere birra e a pensare volti e corpi nuovi. A pensare nuovi paesi e nuove città di pietra.

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