Cosa è normale, ad Allai?
diario del 25 giugno
Recensione
jazz
In “!50” la normalità è suonare su un albero. In una casa di legno appesa ai rami più forti di due eucalipti che fanno da sentinella ai pesci che sguazzano nel “Flumineddu”, dove sembra di essere in Amazzonia e invece siamo in Sardegna, ad Allai, 400 anime nel Barigadu, ai piedi del Monte Grighine, in Provincia di Oristano.
«Scriva Rio Massari», mi dice un gentile signore dandomi i diversi nomi di quel fiume che partendo dal Planu su Giara a 567 metri arriva al Tirso. In “!50” la normalità è svoltare a destra in pieno centro di Allai perché un cartello turistico giallo indica “Casa sull’albero” che ormai è patrimonio del luogo e di quella comunità come potrebbe esserlo un nuraghe o una chiesa romanico-pisana.
Ad Allai è normale che il presente possa convivere con il passato senza scontri né domande. Perché dall’albero il mondo lo si vede meglio e si scopre che, come è stato ieri sera, ci può essere un concerto di jazz e subito dopo un Ballu tundu nella piazzetta del paese. Ballu tundu suggerito dal concerto di jazz come se le due cose fossero in sintonia totale.
Ad Allai può succedere anche che le cameriere del “Bar Pizzeria Mariù” girino tra i tavoli a servire capretto in umido con una t-shirt con stampato sopra “Allai jazz”, perché ieri sera succedeva qualcosa di importante e quella t-shirt continuerà a vivere per tutta l’estate come l’eco del concerto di tre musicisti, un sardo, un tunisino e un franco-vietnamita, che hanno suonato in una casa su un albero di eucaliptus che fa da sentinella ad un fiume che passa.
Ad Allai può succedere che tra il numeroso pubblico che guarda per aria i musicisti ci siano anche quattro Carabinieri e che Dhafer Youssef dica al microfono che lui con i documenti è a posto, e la gente applaude e applaudono anche i Carabinieri che poi ci offrono da bere nella “barracca” dove si beve, che non è vicino al luogo del concerto perché il concerto è sacro, e sacro è il luogo che lo ospita, dove il silenzio deve essere religioso. Normale è anche che i vigili e le vigilesse vogliano fare una foto con noi e che ci mettano in testa il loro cappello con lo stemma dei Quattro Mori Regione Sardegna, a dire che siamo dei loro.
Succede anche che il percorso verso l’albero con la sua casa sia perimetrato da centinaia di fiammelle e che il Sindaco Tonino Saba dica che le fiammelle sono lì perché «dispongono verso la ricerca della voce interiore». Ad Allai succede anche che, andando via dal concerto, tu non riesca a transitare dove ci sono le mescite perché tutti vogliono offrirti da bere e che, poco prima della piazza, ci sia una piccolissima bancarella che vende anelli in legno e monili delicati, fatti da una ragazza bellissima che ci segue ormai da giorni e che tiene fasciato su se stessa un bimbo di quattro mesi che dorme sereno, come se sia normale dormire sereni a mezzanotte tra le “barraccas” di Allai dopo un concerto di un sardo, un tunisino e un franco-vietnamita in una casa su un albero dietro un fiume che sembra di essere in Amazzonia.
In “!50” è normale portare casse, monitor, cavi, sedie, luci, a sette metri su un eucaliptus, e normale è illuminare dieci minuti prima del concerto, appena il sole cala dietro il “Flumineddu”, quello spazio che diventa magico ed è normale mettere un operatore a dieci metri di altezza affinché possa filmare i musicisti sull’albero per poi proiettarne i visi e i corpi sulla grande roccia “sa rocca” che vigila dall’altra parte del fiume. Normale è anche che ci sia una barchetta sulla quale poco prima del tramonto si vada a fare un giro con il nostro autista Lorenzo che dice di avere fatto il corso di canoa e scoprire così che i ragazzi che frequentano l’Open Workshop internazionale di Progettazione e che provengono da Teheran, Bagdad, Bombay o Mosca, stiano costruendo un “finger” in legno che si affaccia sul fiume per l’attracco delle barche e che stiano lavorando con seghe, martelli e pennelli mentre anche noi lavoriamo al preparare il concerto della sera. È normale che ad Allai, 400 abitanti, si organizzi dal 16 al 26 giugno il festival “Ecorurality” e che noi vi si faccia parte con uno dei concerti di “!50”?
È normale che questo abbia come primo obbiettivo lo sviluppo di relazioni sociali con la comunità indagando sulla eco-sostenibilità sperimentando nuovi sistemi di ecoturismo culturale in grado di connettere ruralità con archeologia e ambiente, ecologia con agricoltura e nuove energie come noi facciamo con il Carro che ci alimenta?
Ad Allai tutto è normale: l’Abitalbero che ospita, costruito da Daniele Del Grande e Dario Romagnoli, il nuovo braccio in legno che connette acqua e terra, i compiti dell’Associazione “Paesaggi connessi”, il lavoro di Paolo Mestriner, le idee di Carlo Laconi. Ed è anche normale che mentre a mezzanotte la gente si raccoglie intorno al Ballu tundu lanciato da un DJ e non dall’organetto di Totore Chessa noi si stia a discutere tra una birra e un vino delle barraccas con l’architetto finlandese Dagur Eggertsson di paesaggio e nuove tecnologie costruttive.
Potrebbe non sembrare normale che un concerto su un albero inizi con 57 secondi di campana tibetana. Otto rintocchi a ricordare il 6 agosto del ’45, quando fu sganciata la bomba nucleare su Hiroshima mentre ieri era la Giornata mondiale per l’abolizione delle armi nucleari. E invece lo è, come è normale che alla fine del concerto mi venga chiesto, quando saremo a Carloforte e a Sant’Antioco, di parlare dello scempio di Capo Pecora con il nuovo Radar di profondità, uno dei quattro previsti nelle coste sarde più belle, che installerà l’Amministrazione Militare della Guardia di Finanza con l’obiettivo di controllare i flussi migratori e con i successivi problemi che questo comporterà. Problemi di salute, ambientali, di sviluppo turistico negato… Normale è la contemporaneità di ieri sera, di ieri notte. Del pomeriggio di ieri, perché è normale che la qualità della luce modifichi e amplifichi il nostro senso visivo e olfattivo mutando l’epidermide che cambia in un nuovo rapporto tra luoghi e territori, tra genti e pensieri, musiche e danze di oggi e di ieri. Tra i suoni presettati da Nguyên Lê ed altri mandati da un DJ in costume borghese per fare notte assieme. Tra una “Ave Maria” di Sanlussurgiu filtrata a Parigi in Boulevard Magenta e un suono di organetto registrato in piazza a Irgoli. Tutto è normale.
È l’anormalità a farci paura. Ieri pomeriggio, ieri sera e ieri notte ognuno si fidava dell’altro cosciente del quanto la luce di ciascuno fosse alimentata con poco.
Ad Allai può succedere anche che le cameriere del “Bar Pizzeria Mariù” girino tra i tavoli a servire capretto in umido con una t-shirt con stampato sopra “Allai jazz”, perché ieri sera succedeva qualcosa di importante e quella t-shirt continuerà a vivere per tutta l’estate come l’eco del concerto di tre musicisti, un sardo, un tunisino e un franco-vietnamita, che hanno suonato in una casa su un albero di eucaliptus che fa da sentinella ad un fiume che passa.
Ad Allai può succedere che tra il numeroso pubblico che guarda per aria i musicisti ci siano anche quattro Carabinieri e che Dhafer Youssef dica al microfono che lui con i documenti è a posto, e la gente applaude e applaudono anche i Carabinieri che poi ci offrono da bere nella “barracca” dove si beve, che non è vicino al luogo del concerto perché il concerto è sacro, e sacro è il luogo che lo ospita, dove il silenzio deve essere religioso. Normale è anche che i vigili e le vigilesse vogliano fare una foto con noi e che ci mettano in testa il loro cappello con lo stemma dei Quattro Mori Regione Sardegna, a dire che siamo dei loro.
Succede anche che il percorso verso l’albero con la sua casa sia perimetrato da centinaia di fiammelle e che il Sindaco Tonino Saba dica che le fiammelle sono lì perché «dispongono verso la ricerca della voce interiore». Ad Allai succede anche che, andando via dal concerto, tu non riesca a transitare dove ci sono le mescite perché tutti vogliono offrirti da bere e che, poco prima della piazza, ci sia una piccolissima bancarella che vende anelli in legno e monili delicati, fatti da una ragazza bellissima che ci segue ormai da giorni e che tiene fasciato su se stessa un bimbo di quattro mesi che dorme sereno, come se sia normale dormire sereni a mezzanotte tra le “barraccas” di Allai dopo un concerto di un sardo, un tunisino e un franco-vietnamita in una casa su un albero dietro un fiume che sembra di essere in Amazzonia.
In “!50” è normale portare casse, monitor, cavi, sedie, luci, a sette metri su un eucaliptus, e normale è illuminare dieci minuti prima del concerto, appena il sole cala dietro il “Flumineddu”, quello spazio che diventa magico ed è normale mettere un operatore a dieci metri di altezza affinché possa filmare i musicisti sull’albero per poi proiettarne i visi e i corpi sulla grande roccia “sa rocca” che vigila dall’altra parte del fiume. Normale è anche che ci sia una barchetta sulla quale poco prima del tramonto si vada a fare un giro con il nostro autista Lorenzo che dice di avere fatto il corso di canoa e scoprire così che i ragazzi che frequentano l’Open Workshop internazionale di Progettazione e che provengono da Teheran, Bagdad, Bombay o Mosca, stiano costruendo un “finger” in legno che si affaccia sul fiume per l’attracco delle barche e che stiano lavorando con seghe, martelli e pennelli mentre anche noi lavoriamo al preparare il concerto della sera. È normale che ad Allai, 400 abitanti, si organizzi dal 16 al 26 giugno il festival “Ecorurality” e che noi vi si faccia parte con uno dei concerti di “!50”?
È normale che questo abbia come primo obbiettivo lo sviluppo di relazioni sociali con la comunità indagando sulla eco-sostenibilità sperimentando nuovi sistemi di ecoturismo culturale in grado di connettere ruralità con archeologia e ambiente, ecologia con agricoltura e nuove energie come noi facciamo con il Carro che ci alimenta?
Ad Allai tutto è normale: l’Abitalbero che ospita, costruito da Daniele Del Grande e Dario Romagnoli, il nuovo braccio in legno che connette acqua e terra, i compiti dell’Associazione “Paesaggi connessi”, il lavoro di Paolo Mestriner, le idee di Carlo Laconi. Ed è anche normale che mentre a mezzanotte la gente si raccoglie intorno al Ballu tundu lanciato da un DJ e non dall’organetto di Totore Chessa noi si stia a discutere tra una birra e un vino delle barraccas con l’architetto finlandese Dagur Eggertsson di paesaggio e nuove tecnologie costruttive.
Potrebbe non sembrare normale che un concerto su un albero inizi con 57 secondi di campana tibetana. Otto rintocchi a ricordare il 6 agosto del ’45, quando fu sganciata la bomba nucleare su Hiroshima mentre ieri era la Giornata mondiale per l’abolizione delle armi nucleari. E invece lo è, come è normale che alla fine del concerto mi venga chiesto, quando saremo a Carloforte e a Sant’Antioco, di parlare dello scempio di Capo Pecora con il nuovo Radar di profondità, uno dei quattro previsti nelle coste sarde più belle, che installerà l’Amministrazione Militare della Guardia di Finanza con l’obiettivo di controllare i flussi migratori e con i successivi problemi che questo comporterà. Problemi di salute, ambientali, di sviluppo turistico negato… Normale è la contemporaneità di ieri sera, di ieri notte. Del pomeriggio di ieri, perché è normale che la qualità della luce modifichi e amplifichi il nostro senso visivo e olfattivo mutando l’epidermide che cambia in un nuovo rapporto tra luoghi e territori, tra genti e pensieri, musiche e danze di oggi e di ieri. Tra i suoni presettati da Nguyên Lê ed altri mandati da un DJ in costume borghese per fare notte assieme. Tra una “Ave Maria” di Sanlussurgiu filtrata a Parigi in Boulevard Magenta e un suono di organetto registrato in piazza a Irgoli. Tutto è normale.
È l’anormalità a farci paura. Ieri pomeriggio, ieri sera e ieri notte ognuno si fidava dell’altro cosciente del quanto la luce di ciascuno fosse alimentata con poco.
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