Non toccate il pozzo sacro

diario del 24 giugno

Recensione
jazz
A Santa Cristina ti senti piccolo perché il luogo è immenso. Non grande nel senso di monumentale ma immenso nella sua essenza. Luca come sempre ha un'idea da propormi. Avviene quando arriva, in tarda mattinata, con i tecnici nel nuovo luogo del concerto e li vede, capisce, studia, elabora e poi telefona. L’idea è quella di iniziare il concerto uscendo dal pozzo sacro, ed è la prima volta che gli dico di no e lui forse se lo aspetta. Gli dico di no non solo perché secondo me è un’idea scontata ma perché il pozzo sacro è un luogo speciale ed è talmente forte che non ha bisogno né di me né di nessuno. È talmente forte che va lasciato solo, avvolto nel suo mistero. Da solo a guardarci da lontano come se noi fossimo dei marziani sbarcati da chissà quale galassia, e invece il marziano è lui, il pozzo, e noi lo sappiamo, coscienti della sua complicità. Quel posto è troppo per me. Non mi ci posso misurare ma posso solo provare a dialogarvi con rispetto. Gianfranco Mura ci chiede di fare qualche foto e io mi avvicino alle scale con una Ichnusa in mano, ma poi sento di doverla lasciare lì perché la sacralità del luogo me lo suggerisce. E’ come se una voce che viene da dentro d’improvviso iniziasse a parlarmi senza volere in cambio risposte e implorando solo il silenzio, quando invece la lattina di birra sa di rumore, di decibel e di quella vita che a Santa Cristina è morte e redenzione, rigenerazione, terra, cosmo e pianeti. Il sito archeologico è come la Basilica di San Pietro in Vaticano o La Mecca. È una moschea islamica, un tempio Incas, Ground Zero, I Moai dell’isola di Pasqua, Ayers Rock in Australia, Fatima… Per questo l’ho scelto quando due anni fa ho pensato al progetto dei “!50”. Scelto all’origine assieme ad alcuni altri luoghi come il Villaggio nuragico di Barumini, il Tempio di Antas, l’isola della Foradada di Alghero che però non c’è, Nora, s’Ingurtosu… Non immaginavo che il pozzo sarebbe stato una presenza così forte e l’ho scoperto quest’oggi sentendolo con il corpo e con l’anima. Anima che questa sera più che mai funge da antenna ricevente.

Alla fine del concerto ho parlato a lungo con una giovane donna. Mi dice che viene dal Continente e che ogni sei mesi deve venire a passare due giorni a Santa Cristina per ritrovare la via maestra e per ricaricarsi di energia positiva. “La capisco bene” rispondo. Perché scendere in quel luogo e fare i suoi 25 gradini per arrivare all’acqua nella quale si specchia il foro della volta “a thòlos”, è un viaggio nella storia dell’uomo e dentro se stessi.
Il pozzo sacro è una struttura templare ipogeica perfettamente conservata e dedicata al culto dell’acqua, ma c’è un preciso disegno che sembra essere dettato dall’orientamento astronomico. Secondo questa affascinante ipotesi, è la luna a specchiarsi ogni diciotto anni e mezzo dentro il pozzo attraverso il foro nella thòlos e, sempre seguendo questa teoria, è anche il sole a riflettersi durante alcuni equinozi o solstizi estivi e invernali. Se i riti periodicamente celebrati nei templi dell'acqua sacra (e dunque anche a Santa Cristina) erano collegati alla fertilità della Dea Madre terrestre invocando l'intercessione della Luna considerata la Dea Madre celeste, mi chiedo perché si debba fare un referendum sull’acqua pubblica quando questa è il bene più prezioso che non solo ha il nostro pianeta ma l’uomo stesso nella sua interiorità e e nel suo spirito. Mi chiedo se i direttori delle multinazionali che detengono il mercato dell’acqua del mondo sono mai stati a Santa Cristina. Per capire cosa significa l’acqua per l’uomo e per comprendere quanto questa sia fondamentale per la crescita spirituale, religiosa e terrena. Sono certo che se toccassero con mano l’energia incredibile di quel posto cambierebbero idea su molte cose e imbottiglierebbero meno acqua, evitando di tenere così in scacco il pianeta e coloro che di acqua non ne hanno ma che ne hanno bisogno. Per il corpo e per lo spirito. Santa Cristina è dunque un luogo di pellegrinaggio e andarci fa bene. Quando ci arriviamo con Roberto Gatto, Furio Di Castri e Nguyên Lê, loro non credono ai loro occhi e forse non si rendono conto. Certo, li ho preparati sul concetto filosofico di “!50” ma quel luogo è troppo, e chiede uno sforzo che alle 17 e trenta di un pomeriggio soleggiato di fine giugno potrebbe risultare eccessivo. A quell’ora gli altri protagonisti sono le cicale che se la cantano tra il giallo del fieno, gli ulivi secolari e le pietre che abbracciano il pozzo e davanti alle quali noi suoneremo questa sera. Rispolveriamo un po’ dei vecchi brani e, nonostante non si suoni assieme da quasi dieci anni (fatto salvo un breve intervento nelle “Fresiadi” di Time in jazz, nel 2007) la memoria sembra essere buona e il tempo non sembra avere cancellato i buoni sapori della musica. Ripercorriamo “I Fall in Love too Easily”, “Pong” e “Bee” di Nguyên, “Sueños” di Furio, i miei “Elogio del Discount”, “Metamorfosi”, che piace tanto a Gatto, e “Nightly”, ma non può mancare “Angel” di Hendrix che ha dato il nome al nostro gruppo e al nostro primo e fortunato cd per la BMG francese. Era il 1998.

Finite le prove, il sindaco di Paulilatino, Gianni De Martis, ci invita tutti in un “muristene” che è da quelle parti a bere un bicchiere. Ha preparato due confezioni di dolci alle mandorle che sono ancora diversi da quelli dei giorni prima, a parte gli amaretti, alle mandorle e alle noci, che sono uguali dappertutto. Ci racconta del significato dei muristenes, dei frati camaldolesi di Bonarcado e del fatto che la gente si trasferisce li a viverci per il novenario di Santa Cristina. Un signore che è con lui dice di avere parenti a Berchidda e che questi sono i Ledda che io conosco. Parliamo a lungo seduti su delle sediette basse, di paglia, fuori dal muristene, e prima di andarcene il sindaco regala a ognuno di noi il libro scritto da Arnold Lebeuf “Il pozzo di Santa Cristina, un osservatorio lunare”. Mi rendo sempre più conto di essere in un posto mistico e senza tempo. Anche il muristene è testimone del tempo, e le teorie esposte nel libro rendono ancora più interessante il tutto.
Quando entriamo nel ristorante vedo Gianni Melis e gli dico di dare un’occhiata al libro che mi è stato appena regalato perché li si parla di luce, di rifrazioni, di lunistizio e di solstizio. La “scala della luna” con i suoi segni perfetti è troppo affascinante per lasciarci distratti. Al ristorante che è lì nell’area degli scavi archeologici sembra di essere a casa. Oltre alla nostra lunga tavolata con autisti, tecnici e musicisti ci sono una decina di altri tavoli e tutti sono con gente che è venuta per il concerto e che in buona parte ormai conosciamo. Una coppia pugliese che è al settimo concerto ma che domani andrà via, un gruppo di bolognesi che sono al quinto e che verranno anche domani sera ad Allai prima di ripartire per il Continente, altri visi più o meno conosciuti che salutano e sorridono. Mentre andiamo al bar per prendere un filuferru offerto dal gestore, dico a un’altra coppia che se non finiscono la cena non iniziamo e tutti sorridiamo. Effettivamente questa sera il concerto inizierà con venti minuti di ritardo perché la gente è veramente tanta e continua ad arrivare nonostante siano le 21.40. Sono tutti lì, e l’atmosfera è da una parte elettrica per l’attesa, e rilassata dall’altra. Roberto Gatto e Nguyên Lê con la sua compagna Dominique non credono ai loro occhi perché Santa Cristina, da tempio quale era, è d’improvviso diventata un’arena rock. Fortuna che il gruppo di stasera ha sonorità robuste ma mi chiedo se in quel luogo anche un progetto legato al silenzio non possa funzionare benissimo. Esordisco con la preghiera di non fare troppe foto. “Non siamo noi a guardare il pozzo”, dico, “è lui a guardarci da sempre”. Alcuni bambini sono seduti per terra proprio davanti a noi e seguono il concerto con curiosità, battendo i piedi a tempo e danzando con il corpo.
Il bis è il mio “Metamorfosi” e non poteva essere altro che quello. Metamorfosi è muoversi nel tempo essendo sempre se stessi ma cambiando impercettibilmente di giorno in giorno e di ora in ora. Come le tre acque del pozzo di Santa Cristina. Come l'impercettibile rotazione della Terra su se stessa, capace di dare luce e buio al mondo in un giorno. Non si può però non avvertire ancora la presenza del pozzo e, seppure con poca corrente nelle batterie, decidiamo di suonare un brano acustico in cui io salgo sul muro a secco e Furio va a spasso con il contrabbasso, mentre Roberto accompagna e Nguyên suona al minimo del volume con la gente ormai in piedi a circondarci. La giovane ragazza con accento milanese si avvicina alla fine ed è visibilmente commossa. “Parto contenta”, mi dice stringendomi la mano, “i miei giorni nel pozzo mi hanno rimesso in asse con l’universo”. Luca Devito mi tira le orecchie per l’eccessiva lunghezza del concerto, e ha ragione. Per loro, l’équipe tecnica, è dura finire troppo tardi. Domani devono montare il set in una casa di legno costruita su un albero e con un sistema di quadrifonia sonora capace di splittare i suoni dei nostri strumenti da mandare intorno alla gente.
Questa mattina arriva un messaggio nel blog dei “!50”. Patrizia ringrazia per il concerto di ieri sera. Dice che verrà anche oggi ad Allai. «Il concerto a Santa Cristina è stato veramente suggestivo - scrive -. Ma vogliamo parlare dei vecchietti che vengono ad assistere al concerto? Ogni tanto si guardano intorno tra migliaia di persone accorse da ogni luogo e nella loro terra e con la loro lingua dicono “ma tue la cumprendes custa cosa?”. “Ma tu la capisci questa cosa?». Bellissimo! I vecchietti di Paulilatino. Mi ricordano mio padre che era pastore come loro. Solo che lui, alla fine dei concerti, viene e mi dice: «Stasera avevi il labbro stanco e si sentiva. Il suono della sordina di Miles Davis del ’57 era decisamente meglio…». Sarà anche questa la metamorfosi del mondo?

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