Ben Harper e i post-freak

Ultime riflessioni su Musiques sacrées du monde 2011

Recensione
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«Non è che avresti un biglietto per domani sera?». Il giovane rasta con un fascio di dread sulla testa che ha notato il badge di Musiques sacrées du monde non è l'unico a chiedermi un biglietto per il concerto di Ben Harper, botto finale del festival di Fès (il cantante e chitarrista americano è per la prima volta in Marocco): lo hanno già fatto diversi altri ragazzi, e anche un receptionist del grande hotel in cui sono ospitato mi ha domandato rispettosamente se potevo fare qualcosa. Oltre alla richiesta il giovane rasta avanza anche un ragionamento: «Ma perchè mi fanno ascoltare gratis della musica marocchina? Io vorrei ascoltare gratis Ben Harper». Non ha proprio tutti i torti. In effetti il programma, in ogni senso ricco, di Musiques sacrées du monde presenta un leggero paradosso. Come è ovvio anche il pubblico occidentale può approfittare dei concerti gratuiti, ma è come se la struttura del cartellone dicesse a questo pubblico che i concerti da non perdere sono quelli a pagamento - dove, fatto salvo grosso modo l'ensemble arabo-andaluso di Fès, tiene banco il resto del mondo, dal canto dhrupad dell'India del Nord all'Italia di Scarlatti e Vivaldi, da Maria Bethania a Youssou N'Dour a Ben Harper - e che le esibizioni di musica marocchina sono più che altro dei circenses, un contentino per non far sentire tagliato fuori il pubblico locale. Con una schematizzazione un po' brutale si potrebbe dire che è come se il festival invitasse i turisti stranieri a venire in Marocco ad ascoltare fondamentalmente della musica non marocchina, e ai marocchini per cui i salati biglietti di Bab Makina sono inaccessibili offrisse di ascoltare tanto per cambiare della musica marocchina. Non che a onor del vero i concerti gratuiti di Bab Boujloud fossero da buttar via - tutt'altro - e non riempissero la grande piazza: Nass El Ghiwane, un faro della musica moderna marocchina, Muslim, un rapper di Tangeri, molto popolare perchè parla per esempio di corruzione, che si presentava per la prima volta a Fès, e la penultima sera un formidabile mix di confraternite sufi, con decine di elementi sul palco, e vivacissime, fluide salmodie responsoriali scandite da un ritmo secco e contagioso. Forse anche tanti altri giovani avrebbero preferito - come il giovane rasta - Ben Harper ai sufi, fatto sta che Bab Boujloud era gremito di placide famiglie, di ragazze con e senza velo, e soprattutto di adolescenti maschi in piena tempesta ormonale che si sfogavano come potevano cantando a tutto spiano le antifone dei sufi o con i loro motorini dando gas nevroticamente, sgommando, inchiodando, guizzando - incuranti della presenza di molti bambini piccoli - in mezzo alla ressa. Più à la page il pubblico occidentale - pochissimi gli italiani, in abbondanza francesi e inglesi, ma anche spagnoli, tedeschi, americani - in generale in età matura e accomunato dal fatto di essere composto - a occhio - di post-freak imborghesiti che dovevano essersi formati il loro mito del Marocco in altri decenni, sulla beat generation a Tangeri, su Brian Jones a Jajouka, su Jimi Hendrix a Essaouira, e che oggi in Marocco viene o torna in abiti casual chic in cui una sciarpina è quasi d'ordinanza. Un pubblico che non vede l'ora che nei concerti arrivi il "momento Valtur" in cui gli artisti finalmente invitano a battere le mani o a farsi sotto e ballare, a partecipare, e che dà la sensazione - quale che sia la proposta musicale - di ridurla al minimo comune denominatore dell'esotismo. Un pubblico che affolla gli eleganti riad ristrutturati con capitali francesi: comode camere per turisti, giardino, galleria d'arte, ristorante caro e con cattivi piatti con pretese, gastronomia ibrida o completamente fuori luogo (il tutto, senza nessuna ricaduta - che non siano mansioni da giardinieri, sguatteri o peggio - sul tessuto socioeconomico circostante). È un altro paradosso: la world music, che esalta radici e tradizioni, che dà un fattivo contributo alla gentrification della medina.

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