Anima araba o blues mediterraneo?

Ultimi giorni a Manresa, fra catalani, sardi, italiani, marsigliesi e algerini

Recensione
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«Sai cosa stiamo facendo? – dice il ragazzo in un buon italiano – stiamo cercando di visualizzare quello che ci porta via la Spagna» e indica un cumulo di mazzette di banconote da cinquanta euro. L’altro militante, che espone poco dietro una bandiera giallo e rossa catalano con la stella di cuba sopra, aveva appena provato a chiedermi il voto, per “l’indipendenza e la democrazia”: qui si vota a fine mese per la presidenza della regione. Scoperto che sono italiano, mi ha dato una pacca sulla spalla e ha detto una cosa che suonava, in lingua locale, come un «poveri, state messi pure peggio di noi». Non c’è naturalmente alcun nesso tra questo fortuito incontro sulla rambla Pere III di Manresa e la Fira Mediterrània, di cui sono ospite. Certo è che l’identità culturale catalana è qualcosa di difficilmente comprensibile ai miei occhi di italiano (e piemontese). Sicuramente, non è un’identità esclusiva e prescinde dai movimenti indipendentisti.; prova a farmi capire qualcosa Jordi Urpi, collaboratore del “giornale della musica” e nell’organizzazione artistica della Fira, quando mi dice che non è che «se uno non parla catalano, non lo vogliamo, o se uno non tifa Barça non lo vogliamo». (Paragone curioso, visto che il leader degli indipendentisti è Joan Laporta, già patron del Barcelona F.C.).

Questa visione inclusiva del proprio essere catalani è del resto quella della Fira, e l’apertura è testimoniata dalla “mediterraneità” di questo spicchio di penisola iberica. Difficile orientarsi nella mole di suoni sentiti, in strada per caso mangiando un panino con la sopressada o nello splendido Teatro Kursaal, architettura modernista restaurata in maniera impeccabile. Certo è che l’idea del sound “mediterraneo” proposta da Manresa, pur essendo molto articolata, incarna perfettamente quel suono acustico ibrido che ebbe, almeno in Italia, il suo più noto interprete nel Mauro Pagani prestato a De Andrè. È in fondo il caso, pur in contesto diverso, di tradizione riletta e rinnovata, di Mimmo Epifani. Tra i maggiori virtuosi italiani di mandolino, Epifani con i suoi “barbieri” scalda il pubblico della Taverna “spiegando” pizziche e balli di San Vito. Non certo una scoperta, ma vederlo all’opera all’estero è un piacere anche maggiore. Ed è sicuramente il caso – mutatis mutandis - di Miquel Gil, maestro valenciano di catalanità globale (basta sfogliare le sue collaborazioni). Gil ha una voce da narratore epico, e un sound che molti in Italia vorrebbero, fra percussioni di area sud-mediterranea, ance doppie e liuti di varia provenienza…

Neanche troppo curiosamente è simile il sound di Kamel El Harrachi, dall’altra sponda del Mediterraneo, astro nascente (a 36 anni) del chaâbi algerino e figlio del grande maestro Dahmane El Harrachi, di cui interpreta superbamente il classico “Ya Rayah”. Dopo il concerto, in una breve intervista “rubata”, racconta la sua vita a far la «spola fra la Francia e l’Algeria». Un emigrato “di lusso”, pur tra molte difficoltà, rispetto a quelli di cui parla “Ya Rayah”. Le sue canzoni, spiega, come quelle del padre, raccontano di cose di tutti i giorni, di situazioni universali «come appunto è l’emigrazione». Quando la collega franco-algerina che mi accompagna gli domanda cosa ricordi della guerra civile, e se abbia avuto perdite fra parenti e amici, si ritrae immediatamente: «Chi non le ha avute? Ma le canzoni non devono parlare di questo, bisogna andare oltre…».

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Ritornando indietro, alla tradizione celebrata, la maturità di una scena folk si misura anche dalla sua capacità di non preoccuparsi della filologia: così superbo è il progetto Artaica, con la voce della “diva” Mara Aranda. Un quartetto (oltre alla Aranda, pianoforte, contrabbasso e clarinetto/violino) che partendo da presupposti jazz finisce con il suonare leggero e magico come una musica film, alla Nino Rota.

E dall’altro versante dell’area catalana, da un’isola linguistica dentro un’altra isola, arriva la sarda Franca Masu. Un debutto, il suo a Manresa, molto atteso dopo i primi successi arrivati qualche anno fa proprio all’”altra” fiera catalana, quella di Vic. Si presenta con un quartetto “jazz”, in una versione rodata – spiega – nel corso di un fortunato tour canadese. Ma, pur accompagnata da jazzisti e partendo, come ammette lei stessa, da un background jazz, la Masu riesce nell’invidiabile impresa di non sembrare la solita chanteuse. E non è solo per il fascino misterioso di una lingua altra, il catalano d’Alghero in cui canta: c’entra piuttosto l’individualità vocale, e un trio di musicisti energici (lo strabordante Mark Harris al piano, il bassista Salvatore Maltana, il percussionista Roger Soler). Non è jazz, non è neanche tango – musica prediletta cui la Masu ha anche dedicato un bel disco - e del resto la difficoltà di situarla ben si spiega con l’elenco delle voci di riferimento che lei stessa snocciola nell’intervista a fine concerto: Mina, Chavela Vargas, Amalia Rodrigues, Martirio, e altre ancora. C’è questo, e c’è davvero, nei melismi, nei vocalizzi e nelle pose una «anima araba» di origine misteriosa, pre-conscia e innata. Lo ha notato, prima di me, la già citata collega franco-algerina.
Se l’etichetta di “musica mediterranea” significa veramente qualcosa, probabilmente è di questo che si tratta.

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[Oppure, forse è vero che «il blues ce l'abbiamo anche noi, non dobbiamo andare in America», come mi dice un giornalista italiano durante l'irresistibile set notturno di Moussu T e lei jovents, da Marsiglia. Il mediterraneo è anche questo, una gran confusione di idee, oltre che di musiche.]

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