David Bowie
★
RCA/Columbia
Dei "grandi vecchi" del rock Bowie è divenuto il più refrattario alla luce dei riflettori, sia essa quella dei concerti o delle interviste. Lascia che a parlare siano i dischi: interrotta nel 2013 una pausa decennale con The Next Day, ne pubblica ora uno enigmatico fin dall'intestazione, simboleggiata da una stella nera, e lo fa - scelta che immaginiamo essere per nulla casuale - in coincidenza con il suo sessantanovesimo compleanno. Ovvio che non si discuta d'altro nelle cronache musicali dei nostri giorni: l'aura che circonda l'operazione, oltre all'intrinseco contenuto artistico, ha creato un incantesimo irresistibile e sibillino. C'è ammirazione per questo personaggio di proporzioni pressoché mitologiche ancora disposto a sfidare anzitutto se stesso, invece d'indulgere nell'autocelebrazione. "Sono in pericolo, non ho più niente da perdere", canta in "Lazarus": brano omonimo al musical basato su The Man Who Fell to Earth (romanzo di Walter Tevis portato al cinema quarant'anni fa da Nicolas Roeg, con Bowie protagonista), attualmente in cartellone a Broadway. Si tratta di una ballata dalle sembianze ombrose e sensuali, carezzata dai fiati e trafitta da cupi accordi di chitarra elettrica.
Viene dopo l'inquieta "'Tis a Pity She Was a Whore", che prende titolo da una tragedia teatrale del XVII secolo scritta da John Ford, al centro della quale sta una vicenda incestuosa, resa nella sua intensità drammatica dall'ambientazione sonora: ritmo incalzante, enfasi vocale, sassofono imbizzarrito. A imbracciarlo è Donny McCaslin, affermato strumentista che capeggia il quartetto di jazzisti individuato da Bowie - e dal produttore di fiducia Tony Visconti - per spostare l'asse dell'album lontano dal rock. Si capisce subito che le cose stanno così ascoltando l'iniziale "Blackstar", dall'esordio indecifrabile in termini stilistici, con la sua cadenza asimmetrica e la melodia astratta, che cedono poi il passo a un interludio dall'umore crepuscolare, prima dell'epilogo su tonalità aliene e spettrali che porta l'insieme - praticamente tre canzoni in una - in prossimità dei dieci minuti. La complessità della messinscena è evidente nell'alternanza di scorci avveniristici - la combinazione di armonia e nevrosi in "Sue (or in a Season of Crime)", rielaborazione dell'unico inedito incluso nella recente collezione antologica Nothing Has Changed, oppure l'aggiornamento dei canoni trip hop vagheggiato in "Girl Loves Me", con tanto di scampoli verbali di Nadsat, il gergo dei drughi in Arancia meccanica - e atmosfere in qualche modo familiari, dal mood decadente che informa "Dollar Days" al sentimento nostalgico che pervade la conclusiva "I Can't Give Everything Away", dove a un certo punto Bowie proclama: "Dire no significando sì, questo è stato sempre il mio scopo, ecco il messaggio che ho inviato". Poco meno di un'epigrafe.