Si ha un bel raccontarsi di relativismo estetico, libertà musicale e di gusto: ogni volta che escono i risultati di (inserire nome di prestigioso premio assegnato dalla critica), tutti gli altri si stanno sbagliando. I commenti sono spesso sul tono del vincono sempre i più vecchi, i più mediocri, i più spalleggiati dagli uffici stampa... Italia popolo di santi poeti navigatori e critici musicali? Forse sì. Fatto sta che, nel 2016, ci vogliono ancora eventi come il Top Jazz e il Premio Tenco per interessare qualcuno al di fuori di cerchie degli addetti ai lavori (rispettivamente del jazz e della canzone d'autore) che sembrano sempre più strette
E ogni Tenco e ogni Top Jazz, inevitabilmente, si trascinano dibattiti sul valore che questi riconoscimenti hanno, se non direttamente polemiche. Non è detto che sia un male, naturalmente, ma qualche riflessione, forse, si può fare. I premi funzionano? Restituiscono un'immagine reale o deformata del mondo musicale che vorrebbero rappresentare? La loro formula è ancora adeguata a un mondo in cui la critica musicale è molto diversa, e agisce in spazi molto diversi, rispetto a quando sono stati concepiti? Soprattutto, siamo sicuri che servano ancora? Abbiamo messo a confronto sul tema Enrico Bettinello, giornalista esperto di jazz e giurato del Top Jazz, e Jacopo Tomatis, giornalista e studioso di canzone italiana, che da diversi anni vota per le Targhe Tenco. Senza pretese di trovare tante risposte, ma - forse - sollevando qualche nuova domanda, più costruttiva.
BETTINELLO: «Credo che una premessa sia doverosa e riguarda il fatto che nel momento in cui si decide di partecipare a un premio (io voto al Top Jazz da molti anni, se non volessi potrei farne a meno, se continuo è perché in fondo secondo me una sua funzione la svolge) o di prenderlo in considerazione, non si può prescindere dal sapere che non rappresenta in alcun modo la "verità", né un giudizio di merito così importante. Può essere un gioco, un'indicazione, uno spunto, una cartina a tornasole di quello che merita - e di quello che non merita eh... - e come tale va preso, per evitare isterismi eccessivi in un senso o nell'altro. Fatta questa premessa, è da un lato inevitabile che quello che i premi "fotografano" non sia un ritratto completo né tanto meno fedele di ciò che si muove negli scenari musicali di riferimento, così come è inevitabile che chi predilige sguardi e percorsi differenti scorga nelle classifiche magagne grandi e piccole».
TOMATIS: «Concordo naturalmente, ma mi pare che ciò che emerge sempre dai premi (e non è detto che sia un male, eh) è una grande incertezza, se non una vera polarizzazione, su come intendere il "genere" che devono premiare. Esistono molti "jazz", molti "sguardi e percorsi differenti", come dici tu, ognuno che valuta una cosa a scapito di un'altra: la ricerca, la maggiore vicinanza alle "radici" o la rottura maggiore rispetto a esse, la tecnica, il virtuosismo o l'interpretazione... Ecco, questo mi pare macroscopico per quanto riguarda le Targhe Tenco. Il premio (le cinque categorie del premio: miglior album di cantautore, miglior album di interprete, miglior album di cantautore in dialetto, miglior album di cantautore esordiente, miglior canzone) riguarda molto spesso "che cos'è la canzone d'autore", più che "qual è il migliore cantautore". Sono talmente tanti i modi di rientrare nell'etichetta di "canzone d'autore" (o in quella di "jazz") che è impossibile compararli in termini assoluti. Nel caso del Tenco, molti giurati aderiscono a una concezione più "classica" di canzone d'autore (e per quanto gli organizzatori abbiano svecchiato la giuria, sono ancora molti!). Altri - come me - cercano di puntare sulle cose più strane, più aliene, più "storte"... Alla fine, molto spesso chi la spunta - nella "terra di mezzo" - è il musicista più noto, a volte il più vecchio, in alcuni casi - a essere cattivi - il più mediocre... In categorie poco ricche di proposte - per esempio quella della canzone dialettale - se Davide Van de Sfroos ha inciso un disco nell'anno solare, è certo che sarà nominato (perché è bravo, certo. Ma anche per pigrizia di giurati che ascoltano un disco in dialetto all'anno: il suo)».
BETTINELLO: «Mi aggancio al tuo ragionamento e penso al Top Jazz: vincono sempre i più vecchi? Non sempre, ma spesso sì: nel 2015 l'età media dei primi dieci classificati come miglior musicista è attorno ai 60 anni, solo 4 di questi musicisti sono sotto i 50, solo uno sotto i 40. Se calcoliamo che l'età media dei primi dieci nuovi talenti (per cui quest'anno si potevano votare solo musicisti che non avessero più di due dischi a proprio nome all'attivo) è attorno ai 27, di fatto ci sono un paio di generazioni di jazzisti, quelli tra l'altro nell'età che dovrebbe essere per alcuni quella della maturazione, molti dei quali stanno producendo cose molto interessanti, che in questo quadro, seppure parziale, non sono rappresentate. Vincono sempre i più mediocri? Non credo. Onestamente da "storico" del Top Jazz mi sento di dire che non ci sono stati negli anni degli "scandali" particolarmente evidenti (forse qualcuno di sopravvalutato fra i nuovi talenti anni fa) e nelle ultime edizioni un maggiore equilibrio nella scelta dei votanti ha anche favorito a volte risultati non banali. Ovviamente nessuno dotato di buon senso può dire che il fatto che Franco d'Andrea vinca sia una cosa immeritata. Il punto è che da anni le primissime posizioni della classifica di migliore musicista sono state sempre appannaggio degli stessi artisti, senza un grande ricambio e questo è un difetto che è macroscopico anche in quello che è un po' il padre di tutti i referendum jazzistici, quello di "Downbeat"».
TOMATIS: «Non ricordo grandi "scandali" neanche al Tenco, soprattutto nella categoria principale - anche se, appunto, fra Mauro Ermanno Giovanardi che fa un disco magnifico, ma di gusto molto classico e "vintage", Paolo Benvegnù che fa un disco magnifico ma molto "rock", e Iosonouncane che fa un disco magnifico ma strano, storto, elettronico, la spunta quasi sempre il primo... E non è certo uno scandalo, tutt'altro! I limiti maggiori sono piuttosto nella categoria "esordienti". Negli ultimi anni hanno vinto o sono arrivati nella cinquina finale ottimi musicisti, che hanno poi saputo costruire una eccellente carriera "nel mondo reale" non sparendo nel buio dei sotterranei dei pub di provincia (penso a Le Luci della Centrale Elettrica, a I Cani, a Colapesce, agli Ardecore, allo stesso Iosonouncane...). Ma sono arrivati in fondo, magari anche con l'aiuto di uffici stampa particolarmente bravi e aggressivi, anche dischi tutto sommato mediocri, che sulla lunga distanza hanno mostrato i limiti della proposta artistica, al di là di quella singola stagione. Chi si ricorda degli Elisir, che vinsero nel 2009? È presto per dirlo, ma ci ricorderemo de La Scapigliatura, che ha vinto quest'anno?».
BETTINELLO: «Diciamo che un buon lavoro dell'ufficio stampa aiuta (e non mi sembra uno scandalo, se no questo lavoro non dovrebbe nemmeno esistere), specialmente alla lunga, nel senso che aiuta a spostare quello che in politica elettorale si chiama "il popolo degli indecisi", cioè magari quei votanti che per qualsiasi motivo non abbiano nell'anno ascoltato tante cose che li hanno convinti e che quindi in imminenza di votazione facilmente si ricordano più di certi nomi ben sostenuti a livello promozionale invece di altri. Sulla questione della "ricaduta" nel "mondo reale"... Dipende da quanto uno si aspetta. Conosco artisti che, vinto il Top Jazz, l'anno dopo hanno fatto un numero di concerti bassissimo, così come indubbiamente qualcun altro ha saputo cavalcare meglio l'onore concessogli dalla classifica. Si sta parlando di una nicchia che fa sorridere per irrilevanza di dischi venduti, di un mondo in cui certo per molti musicisti fare una ventina di date in più all'anno aiuta la sopravvivenza, ma siamo sempre a parlare dei margini.
Tranne pochissimi casi, che altrettanto se ne possono fregare del Top Jazz: quest'anno Bollani non è tra i primi dieci musicisti votati, ma secondo te cosa gli cambia in termini di date, di ingaggi? Nulla».
TOMATIS: «Esatto, e lo stesso vale per molti dei "grandi nomi" della canzone d'autore, che è un campo che non ha saputo rinnovarsi più di tanto, a livello di mainstream nazionale, negli ultimi anni: i "cantautori di successo", quelli che riescono a arrivare in TV e che riempiono un grande teatro se non un palazzetto sono più o meno sempre gli stessi, gente che ha esordito in tempi di vacche grasse discografiche: Capossela, la Consoli, Fabi... La generazione degli anni novanta, l'ultima ad aver venduto dischi. Ci sono eccezioni, ovviamente, ma volte ho l'impressione che l'immagine che il Tenco restituisce sia divisa fra una generazione ormai consacrata, e gli eterni "esordienti". Tornando alla questione del salto generazionale fra "big" e "esordienti": c'è, sì, una "generazione perduta", e non credo ricomparirà a breve. Chi ha vinto un premio come esordiente (e anche chi non l'ha vinto, perché quell'anno c'era un nome più forte di lui, o perché il primo disco era moscio) ha pochissime probabilità di essere premiato come "big" nel decennio successivo, perché incontrerà sempre qualche "campione" con un suo saldo lotto di voti, e una fama incredibilmente più ampia. È vero, siamo in una nicchia, e da dentro spesso non ci si rende conto di quanto lo siamo: qualche anno fa, al Tenco, fu ospite (premiato dal Club, non dai giornalisti) Ligabue: il teatro Ariston era sold out, con la gente fuori accalcata e scene di isteria collettiva: non credo sia successo molte altre volte (forse quest'anno, dove il fulcro era l'omaggio a Guccini). Ma l'evento dimostra come se fai un premio incentrato sulla qualità e le scelte artistiche chic, fai mezzo teatro. Se ci butti il grosso nome, fai il pieno. E Ligabue del Tenco (come Bollani del Top Jazz) non se ne fa nulla, non gli fa vendere un disco di più o uno di meno».
BETTINELLO: «Bisogna capire a chi servono, i premi. Nel caso del Top Jazz, alla rivista serve di sicuro, perché fa parlare e vendere qualche copia in più. Ai lettori mediamente piace, come tutte le competizioni. Ai musicisti dipende: quelli che ci sono sempre dentro sono più o meno pro, come intuibile, quelli che non ci sono mai ovviamente se ne fregano o sono contro, ma è normale. Io continuo a credere che comunque sia uno stimolo: se un lettore pensa di trovare la verità in una classifica il problema è suo come ascoltatore, non della rivista o dei votanti. E di certo non è che abolendo il referendum il suo problema di ascoltatore si risolve. Se invece un lettore la prende come va presa, cioè come spunto magari per informarsi su qualcosa che gli era sfuggito, oltre che come spunto per una piccola gratificazione nel vedere nomi graditi vincere o per una piccola incazzatura nel caso contrario, secondo me serve. Certo qualche accorgimento si potrebbe adottare, tipo mettere artisti che vincono per molti anni di seguito in una specie di hall of fame che spinga anche i critici più pigri a ascoltare altro.
Tieni conto che l'altra rivista di jazz italiana, "Jazzit", ha introdotto da qualche anno un award di diverso tipo, più ampio e meno "drammatico" se vogliamo, di segnalazione ampia di cose, una versione più "umana" della fotografia dell'anno trascorso, anche se spesso accompagnata da risultati bizzarri e anche un po' sospetti, il che non ci interessa qui tanto per la questione della loro attendibilità o meno, quanto per il fatto che anche in quel caso di numeri e classifiche sembra non potersi fare a meno. L'immagine che i premi restituiscono è quella che è. Faccio sempre l'esempio di TripAdvisor: più persone votano e commentano un ristorante e più lo fanno con onestà e competenza, migliore è il quadro che ne esce per il lettore».
TOMATIS: «Certamente, anche io credo che il Tenco serva molto - forse più nella selezione che arriva in fondo, o nella prima selezione di cinquanta dischi per categoria, che non nel risultato finale - per informarsi, e avere una panoramica sullo stato dell'arte che nient'altro riesce a dare. Ma è vero, la metafora di TripAdvisor funziona. Proprio per questo mi fanno ridere quei critici (non sono pochi) che dopo i risultati tuonano contro quello o quell'altro scandalo, con argomentazioni tipo "ora vi spiego perché X doveva vincere, e non Y", o "Z è oggettivamente meglio di Q", "Quello è un poeta, e quello no", e così via... La cosa buona dei premi, probabilmente, è proprio la capacità di ricordarci del relativismo del gusto, e della varietà... Certo, qualche "correttivo" potrebbe aiutare non solo a smuovere un po' la scena, ma ad assicurare ai premi un futuro sensato per i prossimi decenni. Non si può pensare che si debba ritirare d'Andrea per cambiare aria (anche perché l'aria è già cambiata!), né una rassegna che (tra virgolette) "ha bisogno" di Guccini per finire sui media nazionali sta facendo un grande investimento sul suo futuro...»